Il Timeo di Platone tra cosmogonia e antropologia


― 9 Novembre 2022

Marco Beck, L’Osservatore Romano

Un trinomio: Atlantide, demiurgo, cosmogonia. Sono questi i tre piloni del ponte che consentì al Timeo di Platone di attraversare il burrascoso braccio di mare esteso fra la tarda antichità greco-romana e la civiltà del Medioevo occidentale. E così, paradossalmente, proprio un dialogo tra i più ardui per complessità tematica ed espressiva, croce e delizia degli esegeti di ogni epoca, oggetto di infinite ipotesi ermeneutiche, fu per secoli l’unico elemento del corpus platonico a tramandare in sintesi il pensiero del grande filosofo ateniese. Almeno fino all’approdo in Italia, al tempo della conquista turca di Costantinopoli (1453), di illustri esuli bizantini con un carico di manoscritti greci, un tesoro al quale attinse Marsilio Ficino per la sua traduzione integrale delle opere di Platone.

Ma perché proprio il Timeo aveva continuato a circolare nell’Europa dell’Età di mezzo? Questa singolarità ha una precisa spiegazione di ordine storico-linguistico. I primi Padri della Chiesa, fra cui Clemente di Alessandria, Giustino Martire, Ireneo di Lione e Gregorio di Nissa, ancora in grado di leggere Platone in lingua originale, apprezzavano soprattutto il Timeo perché percepivano che temi portanti di quel dialogo (la funzione “creatrice” del demiurgo, la natura generata del cosmo, l’origine divina dell’anima) entravano in risonanza “precristiana” con alcuni dogmi della fede da loro professata. Solo verso la fine del IV secolo, man mano che si andava perdendo la conoscenza del greco, il teologo Calcidio, avvalendosi del suo bilinguismo, tradusse in latino il Timeo. E quella versione, benché incompleta, bastò con l’annesso commento a mantenere accesa la fiamma del platonismo anche oltre la frattura culturale, prima ancora che religiosa, tra Oriente e Occidente.

Un’altra singolarità contraddistingue il Timeo: allo stesso modo del Fedone, del Simposio, del Fedro, della Repubblica ecc., viene classificato come “dialogo”. Ma una vera struttura dialogica innerva unicamente il prologo, pari al 10% del testo, là dove Socrate ha come interlocutori Timeo di Locri, eclettico scienziato proveniente dalla Magna Grecia, l’uomo politico Crizia e il generale siracusano Ermocrate. Uno spazio ancora minore è occupato dal racconto di Crizia, tanto fantasioso quanto fascinoso: un excursus che verte, riallacciandosi a un viaggio in Egitto del legislatore Solone, sull’eccellenza di un utopico assetto istituzionale di Atene risalente a 9.000 anni addietro e sulla vittoria della polis contro l’aggressione imperialista dell’esercito di Atlantide, l’isola leggendaria poi sprofondata nell’oceano per effetto di un immane cataclisma.

Più del restante 80% è monopolizzato da Timeo mediante un monologo ininterrotto, traboccante di dottrine filosofiche, mitologiche e scientifiche al limite dell’esoterismo, dall’astronomia alla geometria, dall’antropologia alla medicina. Ne scaturisce, sulla spinta di un grandioso tentativo di interpretazione unitaria delle realtà visibili e invisibili, una summa del sapere platonico nello stile di un trattato, dove Platone mescola svariate cognizioni multidisciplinari a sostegno del suo finalismo metafisico con implicazioni etiche.

Cimentarsi in una nuova traduzione di questo dialogo “monologico”, mirando a una restituzione il più possibile perspicua della prosa platonica, spesso intricata e talora ermetica, è una sfida che Federico M. Petrucci, professore associato di storia della filosofia antica presso l’Università di Torino, ha affrontato con tutto l’armamentario filologico esibito nel commento, per dare corpo all’edizione critica accolta, a sua cura, nella collana della Fondazione Lorenzo Valla: Timeo, Mondadori, 2022, pagine ccxxiv-504, euro 50. Di sicuro, per un lettore mediamente colto risulterebbe proibitivo immergersi in medias res senza quella sorta di “mappa” o “guida” che è, articolata in ben 25 capitoli, l’introduzione di Franco Ferrari, a sua volta ordinario di storia della filosofia antica presso l’Ateneo di Pavia.

Timeo, alter ego di Platone, inaugura la sua trattazione con una premessa: la generazione del mondo visibile dev’essersi conformata al modello dell’essere, il solo davvero esistente perché eterno e immutabile, oggetto di pura conoscenza intellettiva, e non a quello del divenire, sempre diverso e mutevole, oggetto di instabili opinioni. Affinché possa concretizzarsi in una “copia” passando dall’essere al divenire, il modello metafisico, che presumibilmente s’identifica con l’iperuranio (il mondo delle idee), necessita di una “causa efficiente”. Ecco dunque entrare in scena, per un’ordinata cosmogonia, il mitico demiurgo, non un creatore onnipotente assimilabile al Dio ebraico-cristiano, ma piuttosto un artefice divino coadiuvato da divinità minori. La prima entità generata dal demiurgo è l’anima del mondo, principio che presiede ai meccanismi di un universo concepito in forma sferica, la cui armonia, trasfusa nelle orbite dei sette pianeti (Luna, Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno) entro un sistema geocentrico, obbedisce a rigorose regole matematiche.

Affine nell’individualità umana all’universalità dell’anima del mondo, l’anima immortale, tendente alla virtù, viene plasmata dal demiurgo. Gli dèi subalterni la inseriscono quindi nei corpi viventi da loro foggiati in modo che risieda nella testa, orientata verso la sublimità del cielo. Altre tre specie di anima, corrispondenti a una gerarchia discendente di facoltà percettive connesse ai cinque sensi e di pulsioni via via meno nobili, albergano per “incorporazione” in zone inferiori dell’organismo. E tutto ciò ribolle in un crogiolo di teorie biologiche, psicosomatiche e bioetiche, in vista di un equilibrio tra corporeità e spiritualità prodotto dalla sinergia di esercizi ginnici e attività intellettuali. Mens sana in corpore sano, insomma. Secondo l’ideale ellenico, esaltato da Platone, della kalokagathia. Che nel Timeo riflette anche la “bellezza” e la “bontà” dell’interazione cosmica tra fisica e metafisica.


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