Elettra, ovvero donne che odiano la madre


― 4 Luglio 2025

Barbara Castiglioni, Il Giornale

«Non sono madre, non ho madre, non sono sorella, non ho fratelli, sto davanti alla porta ma sono il cane da guardia, parlo ma non chiedo, vivo e non vivo, ho i capelli lunghi, eppure non sento nulla di quel che sentono le donne…». L’Elettra di Hofmannsthal, autore del libretto della sontuosa Elektra di Richard Strauss (1909), è, forse, il riassunto di ogni Elettra: una vergine frenetica e micidiale, per certi versi insopportabile, che non fa altro che pensare alla vendetta, che non si occupa del presente o di sé stessa, ossessionata dal ricordo del padre, Agamennone, e dall’odio per la madre omicida, Clitemestra. Questa Elettra ha le sue radici nella tragedia greca: nelle Coefore di Eschilo, nell’Elettra di Sofocle e nell’Elettra di Euripide, di cui esce ora una finissima edizione, curata da Guido Avezzù, per la Fondazione Valla (€ 60). Tra i più criticati drammi euripidei, l’Elettra è, in effetti, una tragedia molto strana, come spiega bene Avezzù nell’introduzione: ma Euripide disegna dei personaggi che avranno non poche influenze nella storia. La sua Elettra, coi «capelli incrostati di polvere», le «vesti a brandelli», sposata ad un Contadino ma ancora vergine, aspetta solo l’arrivo del fratello, Oreste, per potersi vendicare di Clitemestra, descritta come una sfarzosa regina orientale che non merita certo l’odio assoluto della figlia. Oreste ritorna, e i due fratelli mettono in atto la vendetta: Oreste uccide Egisto, l’amante della madre, mentre Clitemestra viene uccisa da entrambi i figli. La vendetta è compiuta, ma la tragedia della protagonista non è finita: perché Elettra, sporcata del sangue della madre che ha sempre voluto uccidere, sogna un marito («quale marito mi accetterà sposa nel suo letto?») e lo troverà, per volontà degli dèi, nell’amico del fratello, Pilade. Ma quale può essere il futuro di una donna che ha sempre vissuto nel ricordo del padre e solo per uccidere la madre? Il 17 Luglio 1904, Hofmannsthal annotava nel suo diario: «Elettra è una donna che non può più continuare a vivere, e alla quale, una volta inferto il colpo, la vita e le viscere devono fuoriuscire». L’intuizione di Hofmannsthal è, del resto, già implicita nell’Elettra di Euripide: ma il poeta tedesco, la cui protagonista era stata ai suoi tempi giudicata lesbica, sadica, psicopatica – e parecchio influenzata da Freud – ritrae forse l’Elettra più perfetta, che riesce ad unire la grandezza della tragedia greca alla nevrosi del secolo psicoanalitico. Un’Elettra rabbiosa, inquietante, ossessionata dalla purezza, che «ulula come una gatta selvatica», rifiuta il sesso, odia la madre ben più di quanto abbia mai amato il padre e che, soprattutto, ha un’identità fondata sulle negazioni, su quello che non è e non riesce a fare. Non è un caso che la maestosa, regale Clitemestra, rivolgendosi alla figlia, le faccia una domanda che potrebbe essere il riassunto di ogni Elettra: «chi sei tu, da sola? Non sai dire una parola, quando ti si ascolta». Perché Elettra non riesce ad essere: è «una donna pericolosa, che pianta grane», come scriverà Jean Giraudoux nella sua Elettra (1937); e infatti il Novecento è il secolo delle Elettre, come scrive Avezzù nella sua intelligente introduzione. E quella di Giraudoux, molto influenzato da Euripide, è una «vedova del padre» che pensa a sua madre mentre si spoglia, davanti allo specchio, «nostra madre che è così bella che mi fa pena perché invecchia … Nostra madre che io odio». È un’Elettra divorata dall’ odio: «sono calmissima. E dolce. Dolce per mia madre, dolcissima… È quest’odio per lei che cresce, che mi uccide» e, ancora una volta, definita da quello che non è e che non fa. Come, del resto, era quella de Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill (1931): un’Elettra molto simile alla madre, che vuole solo vendicarsi, ma che, che, sotto sotto, si odia, perché «non osa prendersi le responsabilità e agire da sola», come le dirà Cristina, una scintillante e fascinosissima riedizione di Clitemestra. Ma in fin dei conti, questa è sempre stata la vera tragedia di ogni Elettra: non a caso, l’Elettra di Hofmannsthal, feroce e disperata, gridava quello che la protagonista di Euripide poteva solo sussurrare: «Beato chi può agire!».


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