Un Trono di spade di mille anni fa

Paolo Chiesa
― 12 Novembre 2019

Una società fondata su rapporti di fedeltà e su accordi personali, dove la legge è fragile e incerta, dove il tradimento è scintilla dei fatti, dove l’ambizione è primo movente, dove l’ipocrisia è regola di vita, dove la morale sprofonda nella crudeltà e nella libidine, dove l’appartenenza di stirpe è bene supremo, dove la vita umana non è più valore, dove si parla la lingua delle armi. Una terra dove sorgono sfarzosi palazzi, dove circolano immense ricchezze, dove si preparano sontuosi banchetti e si indossano raffinati vestiti; una terra costellata da rudi fortezze, spaventose prigioni e orridi patiboli; una terra dove un popolo asservito muore per la fame e le malattie; una terra dove abili donne e astuti dignitari controllano deboli sovrani, servendosi del sesso, della religione e della magia; una terra dove poderosi eserciti si scontrano in insensate battaglie, lasciando sul campo migliaia di cadaveri. Una società che si crede civile, ma che è minacciata da popoli selvaggi: li ha relegati oltre una poderosa muraglia, ma essi attendono l’occasione di distruggerla.

Sembrerebbe il mondo fantastico del Trono di spade; ma è invece il mondo reale di cui parla l’Antapodosis di Liutprando di Cremona. Ecclesiastico italiano vissuto alla metà del X secolo, Liutprando ebbe vasta esperienza delle corti dell’epoca, quella italiana di Ugo di Provenza e di Berengario d’Ivrea, quella tedesca di Ottone di Sassonia, quella bizantina di Costantino Porfirogenito e Niceforo Foca. L’opera che scrisse è una storia dei suoi tempi, con una prospettiva fortemente personale, molto diversa da quella piuttosto asettica dei cronisti medievali; una storia politica costruita sugli aneddoti e i pettegolezzi di corte, che lui conosceva dall’interno, e che brillantemente racconta.

Chi ritiene che il Trono di spade sia una geniale creazione di fantasia rimarrà sbalordito leggendo Liutprando, che presenta molti episodi analoghi e addirittura identici. Eccone alcuni, a titolo di esempio. Igor, principe dei Variaghi, attacca per mare Costantinopoli, ma i difensori della città scagliano contro le loro navi il fuoco greco, che non si spegne con l’acqua, e le distruggono. Nella sanguinosa battaglia fra gli eserciti di Rodolfo e Berengario cade un’intera generazione di guerrieri, di cui si sentirà la mancanza ancora dopo decenni. La matrona romana Teodora fa eleggere papa un vescovo di cui è amante; la figlia di Teodora, Marozia, lo fa presto uccidere per mettere al suo posto il proprio figlio, che si sospetta abbia avuto da un papa precedente.

L’imperatore Arnolfo di Carinzia, sceso in Italia, beve una pozione avvelenata, propinatagli dalla moglie del suo avversario Guido di Spoleto, resta menomato ed è costretto a ritirarsi. Il re d’Italia Ugo di Provenza fa del suo palazzo un bordello, e ha figli illegittimi da numerose prostitute, che chiama con nome esotici e fantasiosi. Ancora Ugo schiaffeggia in pubblico il figliastro Alberico, colpevole di avergli versato addosso del vino; Alberico gli scatena contro una sommossa, contro cui naufragano le ambizioni di Ugo di diventare imperatore.

Guilla, marchesa di Ivrea, braccata dal re che la vuole uccidere per eliminare il bambino che porta in grembo, fugge in Germania attraversando le Alpi nel cuore dell’inverno. Il principe bulgaro Bojan è celebre per la sua capacità di trasformarsi in lupo, o in qualsiasi altro animale. L’ufficiale bizantino Romano uccide un leone a mani nude, e la fama che si guadagna in questo modo gli apre la scalata verso il trono. I due figli di Romano cacciano il padre per impossessarsi del trono, e meditano di uccidere il fratellastro Costantino, che ha più diritti di loro; ma Costantino ha soldati fedeli, che arrestano i due nel corso di un banchetto. Bosone di Arles mette in giro la voce che Lamberto, marchese di Toscana, non è figlio legittimo, e non ha quindi diritto al titolo; la verità si accerta con un duello; Lamberto vince, ma subito viene imprigionato a tradimento dal rivale, spodestato e fatto accecare. Ottone di Sassonia, in guerra con il fratello per mantenere il trono, vince grazie all’aiuto di una lancia sacra, nella quale sono incastonati i chiodi della croce di Cristo. Rodolfo di Borgogna conquisterà il regno d’Italia grazie all’aiuto di Ermengarda di Ivrea, che gli ha offerto il suo letto impegnandolo a un giuramento di fedeltà. I selvaggi Ungari, rinchiusi dietro un’invalicabile barriera, riescono a uscirne grazie alle discordie dei sovrani occidentali; esplorano il terreno, poi lanciano il loro attacco devastatore. Sotto le mura di Milano, Burcardo duca di Svevia progetta di conquistare a tradimento la città; ma il piano è svelato da un mendicante che conosce il tedesco, e il duca finirà ucciso. Lasciamo al lettore ricordare quanti di questi episodi hanno un corrispondente preciso, o almeno molto simile, nel Trono di spade; un’impresa impegnativa, perché, se non tutti ci sono, tutti potrebbero esserci.

Di affinità, fra il serial e l’Antapodosis, se ne trovano altre, anche su piani letterariamente più raffinati. Uno dei meccanismi narrativi del Trono di spade, un meccanismo anticlassico, è quello per cui lo spettatore non ha mai una consolatoria certezza del futuro. Gli eroi positivi – o per lo meno non troppo negativi –, quelli su cui lo spettatore scommette per una redenzione del mondo, escono talvolta improvvisamente di scena, tradendo le speranze (uno per tutti, Ned Stark, che ci è presentato all’inizio come grande e nobile signore e guerriero, sia pure con qualche umana ombra, muore decapitato alla fine della prima serie, in un momento e in modo che lo spettatore proprio non si aspetta). Chi ha scritto la trama ha voluto così; e lo stesso avviene nell’Antapodosis, ma qui chi l’ha voluto è stata la Storia. Re Lamberto era probo, onesto, pio, autorevole, potente; era l’uomo, dice Liutprando, «che avrebbe sottomesso a sé il mondo intero», se il suo scudiero non l’avesse ucciso a tradimento, a vent’anni, durante una battuta di caccia nella foresta. Ma, fra gli espedienti narrativi, analoga è anche la sincronizzazione geografica, con il conseguente riposizionamento cui il Trono di spade, come l’Antapodosis, costringono il loro pubblico. Le vicende dei singoli personaggi vengono seguite per un ampio tratto – lunghe scene, lunghi capitoli –, poi sono improvvisamente abbandonati, e di loro nulla si sa più per molto tempo – interi episodi, interi libri –, finché non ricompaiono all’improvviso quando la telecamera o il narratore li riprende dove li aveva lasciati. L’immagine visiva del serial rende in modo più facile e diretto il cambio di ambientazione, dall’uno all’altro dei Sette Regni; ma anche Liutprando, con minor ricchezza di mezzi ma non minore sapienza letteraria, sa spiazzare il lettore saltando improvvisamente dall’Italia alla Germania a Costantinopoli, dal trono dell’uno al trono dell’altro paese, aggiungendo talvolta in più quello che accede al soglio papale.

Si può pensare che George R. R. Martin, il romanziere americano che ha fornito la materia narrativa del Trono di spade, o gli altri sceneggiatori del serial abbiano letto l’Antapodosis? Ci sembra molto improbabile, anche se questi autori devono avere in certo modo studiato il medioevo ‘profondo’. La società descritta nel Trono di spade è una società primitiva, anche se ritiene sé stessa una raffinata civiltà; e così era in fondo anche la società in cui viveva e scriveva Liutprando, che fra tutti i suoi contemporanei era certo uno dei meno primitivi, cioè dei più consapevoli del circostante. Ma, se il Trono di spade non copia l’Antapodosis e l’Antapodosis non può copiare il Trono di spade, le affinità devono spiegarsi in altro modo: nei comuni archetipi narrativi, che corrispondono anche a comuni archetipi psicologici e culturali. L’interesse del pubblico – di allora come di oggi – deriva da medesimi bisogni profondi: attrazione e repulsione verso il bene e il male, sentimento della giustizia e dell’ingiustizia, sollievo per la propria sorte davanti a chi ne ha una peggiore, esorcismo di ciò che è mostruoso e diverso, gusto del macabro e del raccapricciante, rappresentazione nella storia di altri dei sentimenti che non si potrebbero manifestare in società. E via dicendo.

Ciò che Liutprando ha di diverso, e che manca al Trono di spade, è la disincantata ironia della narrazione: Liutprando racconta in modo leggero, scherza col pubblico, e il pubblico ride, spesso con crudeltà; solo qualche volta indulge al patetico, a una retorica che gli si attaglia poco. Lo fa soprattutto quando parla del suo signore, Ottone re di Germania, perché su di lui non era il caso di scherzare: anche Liutprando apparteneva alla società che così bene ci rappresenta, e ci teneva alla propria posizione e alla propria carriera. A ridere del re si poteva finire giustiziati, e questo era vero nel X secolo come è vero nel Trono di spade. Nel serial, invece, l’ironia è confinata nel profilo di alcuni personaggi e appare nei dialoghi che li hanno per protagonisti, ma rimane occasionale e non diventa mai cifra narrativa8. Tutto qui è drammatico, anche se nulla mai è tragico: i personaggi sopravvivono ai peggiori colpi della sorte, alla perdita degli affetti più cari, alle più barbare violenze e alle più disastrose menomazioni; e subito si rimettono in sella e ripartono.

Ciò che manca nell’Antapodosis sono i draghi e i morti viventi; ma non può essere che così, draghi e morti viventi sono personaggi di fantasia, mentre le storie di Liutprando raccontano dei fatti reali. Non meno romanzeschi, per altro.


Paolo Chiesa, professore ordinario di Letteratura latina medievale e umanistica presso l’Università Statale di Milano, si occupa principalmente della tradizione manoscritta delle opere della latinità medievale. Ha pubblicato numerose edizioni critiche di testi mediolatini, tra cui quella delle opere di Liutprando e del De Magnibus Mediolani di Bonvesin da la Riva. Per la Fondazione Valla ha curato Il Viaggio in Mongolia di Guglielmo di Rubruck (2011) e L’Antapodosis di Liutprando (2015).


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