Il ritratto di Pietro Citati scritto da Carlo Fruttero

Carlo Fruttero
― 2 Agosto 2022

Una bella sicurezza, da me molto invidiata. Non voglio dire che la mia indole tenda particolarmente all’amletismo, ma di dubbi ne ho sempre, come tutti, tantissimi, sui cardi delle perplessità mi ci spello i piedi quasi ogni giorno, quasi ogni decisione infine presa mi sembra, a rifletterci, sbagliata. Non così Citati, sereno, sorridente, ben piantato nella sua infallibilità: quella Citroën, di quel colore, di quella cilindrata, è l’unica giusta; quella pasticceria di Gavorrano è l’unica che sa fare i salatini; quel certo albergo in Cadore è l’unico dove si sta veramente bene.

Se solo accenni a un buon albergo in Val d’Aosta dove anche tu una volta… Citati taglia corto con una smorfia. Quale Val d’Aosta? La Val d’Aosta non esiste, è cancellata dalla carta geografica. Ipse dixit. Si può sospettare che sia tutta una difesa per tenere lontano Amleto e i suoi tormenti, ma non credo. Citati è convintissimo di quello che dice, sceglie, fa, la sua stessa voce s’impone con tonalità sbrigative, definitive nel fatale labirinto dei sentieri che si biforcano.

È possibile diventare e restare amici di un personaggio così rostrato? Sì, per una ragione ai miei occhi decisiva: Citati è uno dei rarissimi uomini che sanno parlare ai bambini. Un dono divino, se vogliamo, come san Francesco che sapeva parlare agli animali. Abbiamo ormai la certezza scientifica, o metafisica, che i bambini vengono strappati urlanti da un misterioso mondo extraterrestre e che poi qui da noi si adattano piano piano al nostro.

Per alcuni anni, però, conservano del loro luogo d’origine un sistema logico di strabiliante mutevolezza, dove tutto, assolutamente tutto, si può innestare su tutto, tramutarsi nel suo opposto, trapassare inconcepibili dimensioni, far esplodere o miniaturizzare ogni ordine di grandezza, di probabilità, ogni convergenza euclidea o divergenza non euclidea.

Come parlano questi piccoli alieni? Be’, più o meno come noi, apparentemente. Ma ricordano d’istinto la lingua delle mummie, per esempio. Sepolti (meno il volto) in tre tumuli sabbiosi, l’egittologo Citati si china su di loro e gli rivolge cavernose parole. Le mummie rispondono, altrettanto cavernose.

Dopo una lunga criptica conversazione l’egittologo si trasforma in promotore di Formula 1, afferra per i piedi una ex mummia e le fa tracciare col fondoschiena un circuito da brividi, tutto curve e controcurve, un solo rettilineo, e piazza in fila di partenza le grosse biglie iridescenti da lui stesso messe a punto in una sua officina. Ed eccolo giudice di gara, a dirimere delicatissime questioni di fair play, a chiudere un occhio con chi bara (tutti), a rimettere in pista chi ne sembrava uscito definitivamente per la terza volta, a decidere chi abbia in realtà vinto (tutti).

«Ma questa è di inestimabile valore?» gli chiede un bambino mostrandogli una conchiglietta poco più rosa del suo palmo aperto. Senza dubbio, risponde ammirato il massimo diamantologo di Anversa dopo averla scrutata a lungo col suo occhialino fatto con due dita. È proprio di inestimabile valore.

Il cliché, che ha una sua nobile carriera fiabesca, deve essere rispettato. E rispettate (con delizia) saranno tutte le deformazioni di parole praticate dai bambini, soltanto un orecchio ottuso correggerà il rogiologio in orologio, il lusignono in usignolo.

Posso ben dire che quelle feste di bambini (e di grandi) alla Castellaccia erano d’inestimabile valore. C’erano zuppe e torte con e senza panna, intingoli e prelibatezze maremmane, fritti e creme e involtini e salsine sparsi su lunghi tavoli ai bordi del prato: il classico «ognibendidio» sempre presente in Pinocchio e in tante dimore fantastiche. Una bella sicurezza, da me molto invidiata. Non voglio dire che la mia indole tenda particolarmente all’amletismo, ma di dubbi ne ho sempre, come tutti, tantissimi, sui cardi delle perplessità mi ci spello i piedi quasi ogni giorno, quasi ogni decisione infine presa mi sembra, a rifletterci, sbagliata. Non così Citati, sereno, sorridente, ben piantato nella sua infallibilità: quella Citroën, di quel colore, di quella cilindrata, è l’unica giusta; quella pasticceria di Gavorrano è l’unica che sa fare i salatini; quel certo albergo in Cadore è l’unico dove si sta veramente bene.

Se solo accenni a un buon albergo in Val d’Aosta dove anche tu una volta… Citati taglia corto con una smorfia. Quale Val d’Aosta? La Val d’Aosta non esiste, è cancellata dalla carta geografica. Ipse dixit. Si può sospettare che sia tutta una difesa per tenere lontano Amleto e i suoi tormenti, ma non credo. Citati è convintissimo di quello che dice, sceglie, fa, la sua stessa voce s’impone con tonalità sbrigative, definitive nel fatale labirinto dei sentieri che si biforcano.

È possibile diventare e restare amici di un personaggio così rostrato? Sì, per una ragione ai miei occhi decisiva: Citati è uno dei rarissimi uomini che sanno parlare ai bambini. Un dono divino, se vogliamo, come san Francesco che sapeva parlare agli animali. Abbiamo ormai la certezza scientifica, o metafisica, che i bambini vengono strappati urlanti da un misterioso mondo extraterrestre e che poi qui da noi si adattano piano piano al nostro.

Per alcuni anni, però, conservano del loro luogo d’origine un sistema logico di strabiliante mutevolezza, dove tutto, assolutamente tutto, si può innestare su tutto, tramutarsi nel suo opposto, trapassare inconcepibili dimensioni, far esplodere o miniaturizzare ogni ordine di grandezza, di probabilità, ogni convergenza euclidea o divergenza non euclidea.

Come parlano questi piccoli alieni? Be’, più o meno come noi, apparentemente. Ma ricordano d’istinto la lingua delle mummie, per esempio. Sepolti (meno il volto) in tre tumuli sabbiosi, l’egittologo Citati si china su di loro e gli rivolge cavernose parole. Le mummie rispondono, altrettanto cavernose.

Dopo una lunga criptica conversazione l’egittologo si trasforma in promotore di Formula 1, afferra per i piedi una ex mummia e le fa tracciare col fondoschiena un circuito da brividi, tutto curve e controcurve, un solo rettilineo, e piazza in fila di partenza le grosse biglie iridescenti da lui stesso messe a punto in una sua officina. Ed eccolo giudice di gara, a dirimere delicatissime questioni di fair play, a chiudere un occhio con chi bara (tutti), a rimettere in pista chi ne sembrava uscito definitivamente per la terza volta, a decidere chi abbia in realtà vinto (tutti).

«Ma questa è di inestimabile valore?» gli chiede un bambino mostrandogli una conchiglietta poco più rosa del suo palmo aperto. Senza dubbio, risponde ammirato il massimo diamantologo di Anversa dopo averla scrutata a lungo col suo occhialino fatto con due dita. È proprio di inestimabile valore.

Il cliché, che ha una sua nobile carriera fiabesca, deve essere rispettato. E rispettate (con delizia) saranno tutte le deformazioni di parole praticate dai bambini, soltanto un orecchio ottuso correggerà il rogiologio in orologio, il lusignono in usignolo.

Posso ben dire che quelle feste di bambini (e di grandi) alla Castellaccia erano d’inestimabile valore. C’erano zuppe e torte con e senza panna, intingoli e prelibatezze maremmane, fritti e creme e involtini e salsine sparsi su lunghi tavoli ai bordi del prato: il classico «ognibendidio» sempre presente in Pinocchio e in tante dimore fantastiche.

Affezionatissimo, come tutti noi, alla sua bella casa, Citati ci viveva il più a lungo possibile, veniva già a fine maggio e richiudeva tutte quelle infinite finestre solo a fine ottobre, se non in novembre. Spesso riapriva per Pasqua, quasi sempre per le vacanze di Natale, allestendo con suo figlio Stefano e mia figlia Federica (stessa età) un presepe degno di una prima alla Scala, qui il secondo laghetto, lì la nona pecora, l’arrotino laggiù, la Stella un po’ più in basso, e così via fino alla perfezione.

La notte di Capodanno giocavamo a tombola, evento chiassosissimo, eccitato, sgocciolante di sciroppi e bave al cioccolato, scandito dal biscazziere venuto appositamente da Las Vegas per gestire il gioco. E qui dico che chi non abbia partecipato a una tombola presieduta a capotavola da Citati nell’urlìo continuo dei piccoli alieni non può sapere che cosa sia la douceur de vivre.

Messo così, Citati sembrerebbe tutto meno che un illustre e potente personaggio dell’establishment culturale italiano. Qualcuno di quel mondo veniva talvolta a trovarlo alla Castellaccia e lui lo portava poi alla mia spiaggia a fare il bagno. Ma non l’ho mai visto all’ope­ra con banchieri o ministri o luminari di questo o quel ramo. So che s’era preso di grande affetto per Federico Fellini, che girava degli spot pubblicitari per sopravvivere e lo invitava ad assistere alle riprese.

Vinse anche il premio Strega e una volta non so più quale presidente della Repubblica lo invitò a cena al Quirinale, una cena di alte personalità accademiche, delle arti, e d’altro ancora, immagino. Black tie. Citati spiegò allora al segretario che non possedeva uno smoking. Poco male, avrebbe provveduto il Quirinale.

Citati rifiutò. Anche solo la giacchetta nera? Anche. Ma non aveva almeno un abito non proprio color ruggine, un po’ sullo scuro, diciamo fumo di Londra? A palazzo gli avrebbero fornito un farfallino nero con l’elastico, che su una bella camicia bianca… Citati disse di no, grazie e non salì al Colle.

Sdegnoso dunque di riconoscimenti e onori, superiore alle pompe del mondo? Chissà (c’era pur sempre quella piccola macchia nera del premio Strega…). Circa il suo guardaroba, sua moglie Elena faceva del proprio meglio per renderlo, se non presentabile, almeno inoffensivo.

Completi neutri, cravatte spente, che Citati si portava addosso senza la minima solidarietà. Né mai provò la minima solidarietà verso marxismo, materialismo dialettico, palingenesi rivoluzionarie e simili tragiche velleità (e per questo forse sta così antipatico a molti).

Ma fra le tante icone sbandierate in quei cortei il suo rimpianto va al presidente Mao, non tanto per Il libretto rosso quanto perché il Grande Timoniere seppe imporre a miliardi di persone un abito unico, con gli stessi bottoni, risvolti, tasche, della stessa stoffa, dello stesso colore. E non appena si logorava, un altro uguale identico. Questo avrebbe desiderato quanto a sé Citati.

Se faceva di testa sua, o piuttosto se si lasciava plagiare da amici sconsiderati, poteva succedere che si presentasse alla spiaggia combinato nei modi più inverosimili. Lucidi calzonetti color prugna, polo rosso fuoco, una volta arrivò con una maglietta a larghe strisce orizzon­tali verdi e beige, terribile.

«Ma sei impazzito?» prote­stavo io. Su queste cosette esteriori si lasciava dire, sor­rideva indulgente, filosofico. «Be’, che c’è di male, l’ho trovata su una bancarella a Arcidosso»,

«Ma non si può, sembri un centrocampista del Celtic Glasgow!». Citati si rimirava la maglia senza vergogna. «Mi hanno detto che è filo di Scozia, bello fresco» si difendeva bonario.

Faceva lunghissime nuotate al largo riducendosi a un puntino invisibile tra Montecristo e il Giglio. Ma quanto a visibilità in terraferma ne aveva da vendere, come constatai quando mi propose di andare un paio di giorni a Spoleto a vedere un po’ di quel festival.

Questi grandi eventi culturali io li ho, si può dire, mancati tutti. Mai una “prima” fastosissima, attesa da anni, mai un vernissage, un’inaugurazione, una celebrazione squillante. Non m’invitavano, per lo più; oppure ero in un altro posto; o mi spaventava la ressa; e nemmeno io avevo uno smoking, del resto.

Ma il festival di Spoleto durava già da un bel pezzo, i primi appassionati, gli “scopritori”, già avevano smesso di an­darci e quindi il fervore iniziatico delle prime due o tre stagioni non era più da temere. D’altra parte il pubblico doveva essere aumentato vertiginosamente, poiché ogni occasione che contenga il virus dello snobismo si propaga peggio dell’influenza aviaria.

«E se non troviamo da dormire?» dicevo io.

Da autentico leader, Citati nemmeno mi stava a sentire. A Spoleto non c’era naturalmente una camera o subcamera libera. Pazienza, dicevo io, abbiamo fatto comunque una bella gita. Lui sparì, taciturno e grintoso, e quan­do tornò al caffè dove ci aveva lasciati tutti, annunciò che avremmo dormito in un bellissimo albergo in cima a una montagna lì vicino, pochi chilometri di sa­lita, gli stessi in discesa, gli stessi ancora per andarcene a dormire dopo lo spettacolo.

«Quale spettacolo?»,

«Così fan tutte, nel famoso teatrino del festival. E anzi, alzatevi e andiamo»,

«Ma i biglietti?».

Il leader alzò le spalle senza rispondere e si mise alla testa del titubante gruppetto, a grandi passi. Nell’ingresso del teatro si affacciò allo sportello della biglietteria.

«Sono Pietro Citati» disse duro alla ragazza. Io credetti di leggere nel di lei pensiero un chiarissimo «E chi se ne frega», e intravidi, così mi parve, la sua lingua prepararsi alla pernacchia.

Invece, in due minuti, ci furono i biglietti, ci fu un intero palco tutto per noi, e quando si vide che le sedie non bastavano ci furono (altri tre minuti) anche le sedie.

Da quel momento Citati ci guidò per tutte le scale, i giardini, i terrazzi, i saloni, i bianchi divani, le accecanti vetrate, le fresche ombre che provvedevano a fare di Spoleto un memorabile evento mondano. Entrammo in non so quante case (compresa quella di Me­notti, beninteso), attraversammo con impeto non so quanti ingorghi di invitati, curiosi, musicisti, cantanti, addetti ai lavori, camerieri contorsionisti, personaggi dal portamento che diceva palesemente: «Lei non sa chi sono io» (e infatti non lo sapevo).

Un trionfo, che ricordo con nostalgia e gratitudine, perché qualcosa senza dubbio mi insegnò per il mio libro Ti trovo un po’ pallida. Il giorno della partenza andammo a sederci nel grande caffè sulla piazza che digrada appe­na verso il Duomo. File e file di sedie erano allineate per il concerto serale, mia figlia Maria Carla era andata con la mamma a cercarsi una di quelle candide camicie da notte in stile nonna allora di moda, io bevevo un bicchiere di bianco e guardavo quella piazza dolce­mente inclinata, quel capolavoro di chiesa, quella premonizione di violini, flauti, trombe, clarini, sospesa lì davanti come una nube latente di pagliuzze dorate.

«È bello» dissi a Citati, «avevi ragione.»

«Ma io ho sempre ragione» disse lui sorridendo, più rassegnato che fiero.

Da Le mutandine di Chiffon, di Carlo Fruttero, © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A e © 2020 Mondadori Libri S.p.A.


Carlo Fruttero, nato a Torino il 19 settembre 1926, è stato scrittore e traduttore. Gran parte della sua produzione letteraria è legata al lungo sodalizio artistico e di amicizia con Franco Lucentini con cui firmò collaborazioni giornalistiche, traduzioni e romanzi, soprattutto di genere poliziesco, molto amati dal pubblico.


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