Fondazione Valla: gli anni della Castellaccia

Alessandro Barchiesi
― 20 Febbraio 2020

Gli anni che passano ti sorprendono in tanti modi, e per me uno è questo: voglio ricordare i 90 anni ben portati di Pietro Citati e la sua presenza nei libri della Fondazione Valla, il suo ruolo come intellettuale e come fonte di ispirazione per più di una generazione di studiosi. Ma celebrare Pietro Citati è per me anche parlare di un amico e di un maestro, una persona che si lega alla memoria di fatti lontani. Infatti mi colpisce il pensiero che la mia attività nella Fondazione – almeno nel senso di un rapporto personale con Pietro – dura da quasi 50 anni, più di tutte le cose della mia vita che poi sono cominciate, matrimonio e famiglia, lavoro, rapporti personali. All’epoca dei fatti che racconto avevo circa 18 anni, e le esperienze di quell’età non si dimenticano. Molti di quei ricordi hanno a che fare con la Castellaccia. Potete farvi un’idea del luogo dal sito internet, visto che ormai ogni luogo ha un sito: Villa Castellaccia, adibita oggi a feste di nozze che immagino molto piacevoli. Ma allora, intorno al 1973, l’atmosfera era diversa.

Ma andiamo con ordine. I primi classici pubblicati da Mondadori per la Valla datano al 1974: tra di essi due testi poco frequentati dai classicisti, la Vita di Antonio e la Storia Lausiaca, accanto alla Poetica di Aristotele.

Un misto abbastanza rappresentativo del progetto di Pietro Citati, che era nato già ben definito e non è cambiato nel corso degli anni. Dare vita a una collana ricca e autorevole, stile Belles Lettres ma con un commento più ricco, e combinare classici di fama universale con riscoperte stile Adelphi. La formula ha generato un catalogo notevole, che continua a crescere anno per anno. Il mio ruolo nel catalogo è episodico, come quello di tanti filologi italiani e stranieri che hanno lavorato a singole opere: si limita ad aver curato (dal 2004 al 2015) le Metamorfosi di Ovidio, e ora (per una evidente mancanza di fantasia con i titoli) le Metamorfosi di Apuleio (in tandem con Luca Graverini, che ha appena pubblicato il primo volume). Quest’ultima è una coincidenza favorevole alla situazione, dato che so per certo che Apuleio, fra tanti autori cari a Citati, è uno dei preferiti in assoluto. Ma allora come mi viene in mente di essere parte della Fondazione da quasi 50 anni? Il vero angelo custode della collana, per quasi tutti questi anni, è stato piuttosto il filologo e vir bonus Franco Sisti, a cui tutti dobbiamo tanta gratitudine.

Il sito della Castellaccia giustamente definisce la villa «oasi di pace, di verde, di sobria eleganza» e ricorda fra gli ospiti storici Federico Fellini e Italo Calvino.

E intorno ai diciotto anni, è lì che avevo dormito anch’io, diventando testimone delle origini della collana. Mio padre, Marino Barchiesi, era fra i pochi filologi classici che Pietro Citati aveva coinvolto nel progetto originale, e uno dei più vicini a lui per temperamento e gusti. Era del resto un fan di Pietro che seguiva sulle pagine del Giorno, quotidiano a lui caro. Quell’estate in cui faccio anch’io la mia comparsa, era stato invitato da Citati alla Castellaccia per un lavoro emergenziale: le due edizioni di autori cristiani, la Vita di Antonio e la Storia Lausiaca, avevano bisogno di una revisione urgente, soprattutto della traduzione. Lavorare su quei testi può essere affascinante, dato che ci si confronta con un latino e un greco che non si studiano a scuola, con strumenti carenti (ancora di più negli anni ’70) e in assenza di autorevoli commenti, ma è di sicuro un percorso complicato. Ora quei due uomini in partenza diversi, un professore di Letteratura Latina a Pisa e un critico letterario militante, si trovavano a convergere su uno scenario di deserti siriaci, lunatici eremiti, e padri della chiesa, nel silenzio e nel cicaleccio della Maremma toscana d’estate. La presenza di Elena Citati ispirava serenità e conoscenza del mondo locale. Era affascinante il dialogo della coppia Citati con il piccolo mondo maremmano, completo di geometri e postini dai caratteri originali: cresciuto a Padova e ancora poco abituato alla Toscana, ma nutrito di stereotipi ottocenteschi, mi aspettavo che spuntasse anche il procaccia, e qualche bracconiere.

Quella fu una delle ultime estati con mio padre, che sarebbe scomparso nel 1975, e mi trovai a essere testimone di una bella amicizia: Pietro e Marino andavano d’accordo sul modo di leggere e di vivere la letteratura, e le conversazioni a tavola spaziavano senza limiti. Il mio ruolo doveva essere quello di testimone, ma testimone molto interessato. Avevo appena completato il liceo classico e le materie di vocazione erano greco, latino, e letterature moderne: avevo già deciso di concorrere per la Scuola Normale a Pisa, luogo che Citati ricordava con una smorfia amara. Ero approdato alla Castellaccia da novizio, ma con certe aspettative precise. Citati non era ancora il Citati di decine di libri famosi e premi letterari, ma era già in qualche misura un mito. Poco più che quarantenne, era già titolare di un volume di epistolario con Carlo Emilio Gadda, di cui era amico personale sin dai suoi 25 anni; conosceva bene molti protagonisti dell’Italia letteraria, tra cui Pasolini, ed era in confidenza con Calvino. Nel corso dei miei brevi soggiorni a Giuncarico fui presentato a Fruttero e Lucentini, scrittori che amavo e persone che stimavo.

A questo punto ebbi una duplice sorpresa. La prima fu che Citati aveva una dimensione di filologo e di erudito, mentre mi aspettavo che fosse tutto estetica e bello scrivere. Ero cresciuto figlio di un accademico in un orizzonte di tipo filologico, in cui si dava per scontato che o si diventava filologi o si diventava scrittori e giornalisti.

Certo, mio padre era fuori da quella tipologia dato che aveva una passione per ogni tipo di letteratura, di teatro, di musica, e amava fare incursioni in quelli che poi si sarebbero chiamati Reception Studies: ma non pubblicava, come Citati, articoli in cui si offriva un ritratto di Katherine Mansfield o persino di Kafka in due colonne di giornale.

A questo punto, la prima sorpresa: pur sospettabile di estetismo, neoplatonizzante, e antistoricista, Citati sapeva bene il greco e il latino, amava la grammatica, e riusciva a discettare a lungo sulla differenza fra un aoristo e un imperfetto nei padri della Chiesa. Il suo amore per lo stile e il suo culto della precisione si estendeva alla traduzione e persino all’apparato critico e alla costituzione del testo. (Dopo poco scoprii che Citati era davvero una sfida agli stereotipi: non solo in lui convivevano un tecnico e un esteta, ma anche un uomo d’affari svizzero: contrariamente a quasi tutti gli intellettuali che avrei conosciuto in seguito, aveva intuizioni manageriali e sapeva parlare a banchieri e direttori editoriali: anche da qui il successo imprevedibile della Valla.)

Il secondo colpo di scena fu che anch’io potevo dare un contributo. Avevo certe basi di greco e latino e amavo leggere: in più, avrei fatto di tutto per essere accettato da quei due. Dopo poco tempo, ero parte della squadra: ci sentivamo come tecnici che formano una task force per salvare una piattaforma petrolifera. Il debutto della Valla era importante e un po’ azzardato, e i nuovi libri avrebbero avuto ogni tipo di attenzione, anche ostile. Errori, sviste e anomalie dovevano sparire, e i tempi erano stretti. Dopo di che, a volte mio padre o Pietro nominavano Proust, Montale, e Anna Achmatova, e la discussione partiva, gloriosamente, per la tangente. Ma si sa che le estati in Maremma a 18 anni non finiscono mai.

Lavoravamo nel silenzio profondo della collina maremmana, ognuno con le bozze sott’occhio, e un paio di dizionari a disposizione. Ogni tanto qualcuno di noi lanciava un’esclamazione o persino un grugnito, e tutti ci concentravamo sul punto difficile. La discussione a volte durava a lungo. Dopo pochi giorni alla Castellaccia, quell’estate, decisi che sarei diventato uno studioso di letterature antiche. La magia di quei giorni non è durata per sempre, ma quando ci ripenso mi ritorna la passione. Per questo sento che è arrivato il momento della gratitudine, credo anche a nome di altri.

Citati ha fatto molto per far durare la lettura dei classici nel nostro paese. La formula della Valla ha permesso un rapporto con i testi a vari livelli: professionale, seminariale, di insegnamento, di approfondimento culturale, di semplice curiosità, di jouissance. Ora ci guardiamo indietro, e tutto sembra facile: ma non era scontato che andasse così. Non tutti i volumi sono stati di pari successo, e non è facile indirizzare i collaboratori: dopo aver segnato la mia transizione all’università, la Valla è stata anche la mia prima fonte di guadagno post-laurea, con la traduzione del commento inglese di J.B. Hainsworth all’Odissea, uno dei lavori più aridi e meno accoglienti nella storia dei commenti classici. Ognuno di noi ha i suoi fasti e nefasti tra i volumi Valla. Intanto però sono aumentate le occasioni di incontro fra ricerca e pubblico dei lettori, e mi sembra che anche i filologi professionali abbiano raccolto un po’ dello spirito della Castellaccia: molti hanno capito che si può spiegare un problema di testo e anche aiutare i lettori a capire grandi temi che ci riguardano tutti come esseri umani, e scrivere in modo inclusivo anche di materie difficili. Si è imparato a legare di più traduzione e commento, e a prevedere il punto di vista di lettori estranei al greco e al latino, tema su cui Citati ha sempre insistito. Credo di interpretare la voce di molti lettori nel ringraziarlo oggi: la sua idea di critico al servizio dei grandi autori emerge con straordinaria coerenza da tutta la sua opera pubblicata e dalla sua voce personale, ma anche da quella lunga fedeltà che è la Lorenzo Valla.


Alessandro Barchiesi insegna letteratura latina alla New York University. Dopo gli studi a Pisa (SNS), ha insegnato, tra le altre, alle Università di Verona, Milano, Harvard, Stanford e Siena. Si è occupato di Virgilio, Orazio, Ovidio, di intertestualità, teoria letteraria e della relazione tra poesia e arte. Per la Fondazione Valla ha curato l’edizione delle Metamorfosi di Ovidio ed è co-editore, insieme a Luca Graverini, delle Metamorfosi di Apuleio.


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