L’Elena di Euripide

Barbara Castiglioni
― 18 Maggio 2021

Tra tutti gli oltraggi mitologici compiuti da Euripide, il più clamoroso è senza ombra di dubbio il rovesciamento del mito di Elena. Un oltraggio che non viene ridimensionato dalla paternità stesicorea della versione e dell’invenzione dell’εἴδωλον, perché Euripide era un poeta tragico e come tale rappresentava i suoi drammi in occasione delle feste in onore di Dioniso: la più importante occasione di celebrazione – e di reiterazione – dei valori condivisi, un vero e proprio rito apotropaico di un’intera comunità. Durante la celebrazione e la reiterazione di questi valori condivisi, Euripide mette in scena la traditrice per eccellenza spogliata della sua tradizione e del suo mito: Elena doveva essere la peccatrice, Elena diventa – o sembra diventare – il modello; Elena, che lo stesso poeta aveva già ironicamente dilaniato nelle altre sue tragedie, diventa – o sembra diventare – la donna ideale, la moglie fedele a Menelao, la madre assillata dal rimpianto per la figlia (Ermione), la figlia dominata dal pensiero di aver rovinato la reputazione della madre (Leda).

Nel dramma euripideo, Elena, la vera Elena, si trova in Egitto, dove è stata condotta per volere degli dèi e dove, protetta da Proteo – il re d’Egitto – è rimasta fedele al marito, mentre Paride ha portato a Troia un εἴδωλον, un fantasma fabbricato d’aria, in tutto e per tutto identico ad Elena, ideato da Era per vendicarsi del giudizio di Paride e della sconfitta nella contesa tra le dee. Alla morte di Proteo, la vera Elena è di nuovo in pericolo, insidiata dalla concupiscenza del figlio, Teoclimeno, che vuole farla sua. Solo l’arrivo di Menelao potrebbe salvarla e riportarla finalmente a Sparta…

Euripide, però, non rinuncia a complicare una trama già di per sé sorprendente: dall’incostante oscillazione delle responsabilità divine al misterioso ruolo di Teonoe, sorella di Teoclimeno ed enigmatica profetessa, dal ruolo di villain sui generis dello stesso re egizio fino al ‘doppio’, tratto costitutivo di Elena che si propaga vertiginosamente e contagia l’intera struttura del dramma – che presenta due prologhi, due scene di riconoscimento con due diversi guerrieri greci, prima Teucro, poi Menelao, due profezie, due deus ex machina, due scene di inganno ai danni di Teoclimeno e persino un revival, miniaturizzato ma molto allegorico, della guerra troiana, necessario alla fuga dei due sposi – , la tragedia si definisce in un’ininterrotta esplosione di dubbi e di contraddizioni.

La più grandiosa delle quali è, naturalmente, Elena: la «nuova Elena» (καινὴ Ἑλένη), come la definirà ironicamente Aristofane, infatti, è la donna che dubita di essere figlia di Zeus e Leda, è la donna che seguita ad ostentare la sua fedeltà al marito e che vorrebbe privarsi del suo bellissimo volto, divenuto per lei una maledizione, è una prigioniera della δόξα e della δόκησις, è una vittima innocente sacrificata dagli stessi dèi che deve continuare a venerare: la καινὴ Ἑλένη, però, è la donna che, proprio sfruttando la seduzione permessa dalla sua bellezza – insieme alle lusinghe del λόγος e agli inganni della percezione dei sensi – riesce a convincere Teucro di non essere Elena, Menelao di essere Elena – anche se con l’aiuto dell’εἴδωλον – e Teoclimeno a darle tutto il necessario per fuggire dall’Egitto. La καινὴ Ἑλένη non è che lo specchio rovesciato dell’ ‘altra’ Elena – quella pentita dell’Iliade, costantemente individuata nella sua scintillante e rovinosa bellezza, quella irresistibile dell’Odissea, imperturbabile regina di ogni ambiguità – rifinita con un ritocco di cinismo da Realpolitik più che necessario per la sopravvivenza alla fine del V secolo.

Elena, però, non è certo l’unica contraddizione della tragedia: lo è Teucro, eroe che incarna gli anacronismi del mito e dei valori che dovrebbe portare in scena – proprio come accadrà con Menelao – ma attraverso cui Euripide inizia ad enfatizzare anche gli inganni della percezione sensoriale e i limiti della ragione. Teucro, infatti, incontra Elena e crede di aver di fronte ai suoi occhi l’Elena per cui ha combattuto a Troia, che lo convince di non essere la donna che in realtà è, ed esce di scena dicendo alla vera Elena che il suo corpo (σῶμα) somiglia a quello di Elena, ma non il suo animo (quindi la sua realtà interiore, φρήν): l’impossibilità di distinguere tra apparenza e realtà e di conoscere la verità che emergono dal prologo si riveleranno un vero e proprio leitmotiv della tragedia.

Molto contradditorio è anche Menelao, prigioniero del mondo epico e della fama che si è conquistato combattendo, ma anche protagonista, suo malgrado, di una delle scene più umoristiche e allo stesso tempo riflessive della tragedia, quella del riconoscimento con Elena, che prosegue la satira epistemologica già iniziata durante l’incontro con Teucro e dimostra come la conoscenza non possa essere garantita neppure dalla realtà. Menelao, però, non è solo l’ennesima variante umoristica dell’eroe tragico coperto di stracci, marchio di fabbrica euripideo, né una mera e distorta allusione ad Odisseo, ma un personaggio molto complesso, che si rivela del tutto consapevole della vanità delle sue sofferenze, come dimostrerà a più riprese nella tragedia, e che darà prova, proprio come Elena, di autocoscienza poetica.

Molto contraddittori sono anche i due barbari della tragedia: Teonoe, la sorella del brutale re egizio, la ieratica profetessa a cui è affidato il destino di Elena e Menelao, è una delle figure più enigmatiche del teatro euripideo, e come tale è stata interpretata in tutti i modi possibili, da semplice tassello nel gioco degli opposti a fairy onnisciente pronta a rischiare nobilmente la vita per i due sposi. Più che essere una superflua sacerdotessa propugnatrice di un nobile ma vago misticismo o rappresentare la possibilità di una concezione filosofica della divinità, Teonoe sembra, piuttosto, prigioniera del suo ruolo di indovina, equidistante dai capricciosi dèi olimpici quanto da alternative religiose o filosofiche che non riuscirà, davvero, ad offrire.

Il fratello di Teonoe, Teoclimeno, il polo apparentemente negativo di una delle molte dicotomie che dominano la tragedia, quella etnica, è un villain molto più raccontato e temuto che reale: venera il padre defunto, accondiscende a ogni desiderio di Elena, e, nonostante la raccontata sauvagerie, si dimostra generoso e impeccabilmente gentile con il finto marinaio greco (Menelao in incognito). Il re egizio avrà una reazione violenta solo quando scoprirà di essere stato ingannato: la sua, però, sarà una furia davvero fugace, subito frenata dall’ingresso in scena del deus ex machina.

Anche i servi, nell’Elena, sono personaggi molto particolari: la Vecchia Serva, la portinaia di Teoclimeno che dà notizia della presenza di Elena nel palazzo a Menelao, lo dilania in uno scontro verbale che non ha paralleli in tragedia, azzerando il suo passato mitico e la gloriosa autorappresentazione di nobile eroe e valoroso guerriero a cui gli spettatori avevano assistito nella scena precedente. Al Servo di Menelao, invece, che racconta la dipartita dell’εἴδωλον e certifica, implicitamente, la fallibilità dell’ ὄψις, è affidato il compito di commentare un episodio cruciale della tragedia, quello del riconoscimento tra i due sposi: nella lunga sezione che lo vede protagonista, il Servo sottolinea a più riprese la vanità delle sofferenze patite, dimostrandosi ben più di un comune servo o messaggero, ma un personaggio a tutto tondo.

Gli dèi, nella tragedia, sono lontani e incomprensibili: Afrodite, Era e Atena, le tre della contesa, responsabili, quindi, della sorte di Elena (e di tutti i Greci), non compaiono mai direttamente in scena, ma, quando sono nominate o raccontate dai personaggi, si segnalano per i loro comportamenti imbarazzanti, motivati solo dall’egoismo e dal tentativo di mantenere il proprio prestigio, e incuranti delle conseguenze che tutto questo può avere nelle vite degli uomini.

In una tragedia fondata su un’azione che la protagonista non ha commesso e dove nessuno dei personaggi è quello che ci si potrebbe attendere, anche le sezioni corali sono sorprendenti: la parodo è un dialogo lirico tra la protagonista e il Coro, costituito da giovani donne greche ridotte in schiavitù, in cui viene rafforzata la rappresentazione di Elena come vittima innocente ed è introdotta una nota che sarà caratteristica di tutte le sezioni corali della tragedia, cioè l’«autoriflessività» e la «proiezione» corali, un aspetto centrale della riflessione metateatrale di Euripide.

Il primo stasimo, cheappare ai 2/3 del dramma, dopo più di 1000 versi econ 300 di ritardo rispetto ad ogni altro primo stasimo di Euripide, è dedicato all’infinita catena di sofferenze vissute a Troia e alla riflessione intorno alla vanità di ogni guerra ed è, nonostante il tono lugubre e pessimista, in palese contrasto con il riconoscimento appena avvenuto e le prospettive di fuga di Elena e Menelao, il meno difficile da inquadrare nella tragedia. Il secondo e il terzo stasimo, invece, sono stati spesso considerati due esempi di ἐμβόλιμα, intermezzi musicali avulsi dalla trama e perfettamente fungibili da una tragedia all’altra, o di «stasimi ditirambici», influenzati dalle innovazioni attuate in ambito lirico dai poeti che rappresentavano le nuove tendenze musicali della seconda metà del V secolo a.C. (la cosiddetta «Nuova Musica»). Questa etichetta, però, deve essere intesa nei termini dello stile, del metro e, soprattutto, del cospicuo uso dell’immaginario dionisiaco, con evidenti intenti di recupero degli elementi tradizionali che erano progressivamente scomparsi nel corso del secolo, e non della completa irrilevanza rispetto all’intreccio della tragedia. Il secondo stasimo, l’ode alla Gran Madre, infatti, ridefinisce i motivi predominanti della trama dell’Elena ed è uno tra i maggiori esempi di questo recupero: Euripide, che deve essere considerato, nonostante le accuse di Nietzsche, il più dionisiaco dei tre tragici, dimostra di utilizzare il coro e Dioniso in modo da ricreare momenti di autentica ritualità in perfetta sintonia con le celebrazioni delle Grandi Dionisie e di rievocare, non senza nostalgia, le antiche origini della tragedia.

Neppure il terzo stasimo, che si rivelerà il culmine della proiezione corale ed è senza dubbio il più influenzato dalla Nuova Musica, con quattro serie di immagini apparentemente slegate tra loro, può essere considerato isolato dalla trama: la fuga dalla realtà e l’escapismo a cui sembrano condurre le evocazioni di navi fenicie, le lontane celebrazioni spartane, i voli di uccelli e i cori stellari, infatti, ritornano sempre e comunque a Troia e non fanno che rivelare, una volta di più, l’impossibilità dell’oblio.


Ancor più del lieto fine, in cui il deus ex machina (i Dioscuri) riconduce forzosamente la trama al mito, presagendo l’immortalità di Elena e il destino ultraterreno di Menelao sull’isola dei Beati e dà vita al più positivo – ma anche al più insoddisfacente – tra gli epiloghi euripidei, tutti gli elementi finora descritti hanno fatto nascere sorgere discussioni su cosa possano davvero essere l’Elena e altre tragedie euripidee (Ifigenia in Tauride, Ione, Oreste, Ifigenia in Aulide), caratterizzate da spettacolari colpi di scena e da un’ironia costante, popolate da eroi e dèi in deliberato contrasto con il loro stesso mito e di volta in volta classificate come melodrammi, tragicommedie, tragedie romantiche, drammi borghesi o, addirittura, direttamente drammi satireschi.

La differenza di Euripide è sempre stata percepita, a partire dai suoi contemporanei: di rado vittorioso agli agoni tragici, bersaglio prediletto di Aristofane, il poeta, nel secolo successivo, fu messo in secondo piano anche da Aristotele che, pur definendolo «il più tragico dei poeti», poneva l’Edipo Re come modello esemplare della poesia tragica, esercitando un’influenza determinante sulla critica posteriore. La teoria dei generi letterari che, come è stato più volte osservato, corrisponde in realtà, fin dall’antichità, ad una dottrina della purezza dei generi letterari, non è però molto produttiva per lo studio di determinati autori, soprattutto per quelli che devono essere compresi nelle loro ambiguità, nei loro paradossi e che, come Euripide, dimostrano di introdurre nelle loro opere una componente di disordine prestabilito, attraverso la contraddizione tra forma e contenuto.

Questa osservazione – che non deve per forza condurre ad un’interpretazione ‘sentimentale’ del poeta – priva però di senso la tormentosa, anacronistica questione del genere letterario entro cui far ricadere le opere dell’ultima fase della sua carriera: la confutazione del mito, la presenza di eroi improbabili e di dèi intollerabili, gli epiloghi bruscamente risolti da ingloriosi deus ex machina, la decostruzione delle polarità su cui i Greci avevano illusoriamente fondato il loro universo sono prodotto del controllo artistico del poeta e si rivelano l’esito – tanto consapevole quanto inevitabile – della ‘volontaria costrizione’ di Euripide ad una forma d’arte con cui non era più possibile circoscrivere e riflettere una civiltà al collasso. Più che distruggere la tragedia, quindi, Euripide, un po’ poeta, un po’ profeta, come suggeriva Bernard Knox, arriva a stabilire uno stile «che deliberatamente esaurisce – o tenta di esaurire – le sue possibilità e sconfina nella propria caricatura». Come l’Edipo Re era una tragedia secondo lo stile di Sofocle, i Persiani secondo quello di Eschilo, l’Elena – così come l’Ifigenia in Tauride, lo Ione, l’Oreste e Ifigenia in Aulide – è una tragedia di Euripide, che corrisponde al suo stile e alla sua idea di tragedia, dove le contraddizioni operano in contrapposizione al contesto in cui sono collocate ed esaltano la tragicità dell’opera (e dell’esistenza umana).

Nell’Elena, una dolente lucidità insidia l’atmosfera di forzosa illusione che pervade il dramma, e l’angoscia e la disperazione emergono dall’esplosione di leggerezza esotica e sotto il velo di brillantezza della trama.

Proprio come un’ombra, un’impressione di vanità ricopre ogni istante della tragedia: vana è stata la guerra di Troia e vane sono state tutte le sofferenze, patite per un εἴδωλον; vano si rivela il desiderio di Teoclimeno per Elena; vano si è rivelato il vagabondaggio di Menelao, già (pre)destinato alla vita eterna con la moglie. Ogni tentativo, ogni sforzo degli esseri umani per conoscere la verità, o perlomeno ricercare un significato, sembra suggerire Euripide, è destinato allo scacco: i sensi, come ha dimostrato l’εἴδωλον, sono ingannevoli, ma non è da meno il λόγος che, individuato dai fuochi d’artificio verbali promossi dalla sofistica, lusinga molto, ma produce solo un ulteriore, disperante sdoppiamento (ὄνομα/ πρᾶγμα, ὄνομα/σῶμα, ὄνομα/ ἔργον, λόγος/ ἔργον), al di sotto del quale affiora l’identico, inesorabile vuoto.

Smarrito nel silenzio divino e dopo aver esagerato le contraddizioni dei sensi e della ragione, in modo da provarne l’inefficacia, Euripide sembra concedere una sola alternativa: meglio un’ombra, un fantasma, oppure il vuoto? Ma a questa domanda, in fondo, aveva già risposto l’εἴδωλον.


Barbara Castiglioni, laureata in Lettere Classiche, Dottorata in Studi Umanistici presso l’Università di Torino con una tesi sull’Elena di Euripide, si occupa di tragedia antica e di ricezione del classico. Ha pubblicato vari saggi sulla tragedia greca e sul rapporto tra dramma antico e moderno.


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