Poche parole sul dipinto scelto per la sovracoperta di quest’Elettra. Non solo per apprezzare quanto la lettura di De Chirico sia aderente alla drammaturgia e quanto originale senza tradirla, ma anche per mostrare quanto spesso chi crede di ravvisare le antiche immagini del dramma e chi si propone di illustrarlo prescindano dal suo effettivo svolgimento. È un fenomeno che fa riflettere su come ciò che chiamiamo “mito”, del mito una sua versione degradata, consistente in una narrazione sintetica e priva di corpo, riesca a prevalere sulla corporeità scenica dei personaggi, perfino di quelli che, privi di un mythos anteriore al teatro, nascono per così dire col dramma (si leggano le recenti considerazioni di Eva Cantarella su Antigone). Rintracciare il modello narrativo o drammatico e non attenersi al dettato più superficiale e generico della fabula non è solo un esercizio di erudizione fontistica. Questo vale anche per la poesia che, a volte in modo inatteso, ricrea i personaggi della tradizione mitologica e teatrale: per esempio in Electra on Azalea Path (1959), Sylvia Plath rievoca il padre, i cui arti erano stati mutilati col procedere della malattia, e il modello implicito è, in questo particolare come anche in altro, l’Elettra di Sofocle, dove si ricorda la mutilazione (maschalismos) di Agamennone morto.
Tra i pittori moderni Giorgio De Chirico è forse il solo che raffiguri Elettra come fu ideata da Euripide intorno al 420 a. C. Nel suo Oreste ed Elettra i fratelli sono stravolti dopo avere ucciso la madre Clitennestra. Ne abbiamo due versioni (Figg. 8 e 10); quella definitiva, appartenente alla Collezione privata Claudia Gian Ferrari, è ora nella Villa Necchi Campiglio a Milano, del FAI – Fondo Ambiente Italiano.
Il matricidio è soggetto raro anche nell’iconografia antica, dove prevale la scelta di rappresentare il riconoscimento dei fratelli che s’incontrano alla tomba del padre – una scena che è nelle Coefore di Eschilo e manca invece tanto nell’Elettra di Sofocle quanto in quella di Euripide. Ogni drammaturgo imposta la scena del riconoscimento a modo suo, acuendo o frustrando le aspettative del pubblico attraverso il contatto – cercato, eluso, rinviato – fra i personaggi: il gioco drammatico dota di corpi tangibili i processi mentali. Si direbbe però che nella lettura delle immagini antiche sia stata privilegiata la considerazione del racconto sintetico, spoglio e incorporeo. Così l’attribuzionismo settecentesco ha imposto letture arbitrarie delle immagini antiche, per esempio quanto al gruppo del Museo Nazionale Romano (Menelao, I a. C. – I d. C.; Fig. 1): non un’Elettra con Oreste, come proposto da Winckelmann, ma più probabilmente una Penelope con Telemaco: il personaggio femminile è troppo più maturo di quello maschile per essere soltanto una sorella maggiore e il gesto non ha niente a che vedere né con il canonico riconoscimento né con l’atto di guidare la mano di Oreste nel matricidio, come in Euripide, ed è piuttosto un invito alla moderazione. Non va meglio fra gli artisti moderni: esemplare la tela Oreste uccide Egisto e Clitemnestra di Bernardino Mei (1612-1676; Fig. 2) con Oreste che, da solo, fa strage della madre e del suo amante – un carnaio senza paralleli nel teatro, forse inteso come contrappasso al racconto odissiaco della fine di Agamennone ma che con il poema e con le tragedie sopravvissute non ha alcun rapporto: Oreste indossa la corazza e viene così a mancare l’inganno (dolos), tratto ricorrente in tutte le fasi della saga.
Fig. 1. Menelao, Elettra e Oreste (?), Museo Naz. Romano, inv. 8604. Fig. 2. B. Mei, Oreste uccide Egisto e Clitemnestra, Palazzo Salimbeni, Siena.
Quanto alle due Elettre di Tischbein padre e figlio, quella di Johann Heinrich (1722-1789; Fig. 3) non raffigura la protagonista euripidea come vorrebbe invece Wikipedia, né quella di Johann Heinrich Wilhelm (1751-1829; Fig. 4) ci presenta il riconoscimento dei fratelli alla tomba del padre, ma entrambi Elettra alle prese con l’urna che dovrebbe contenere le ceneri del fratello, come in Sofocle – Tischbein il Giovane anche con un improbabile Oreste che però, armato di tutto punto, contraddice l’autore tragico. Il redattore di Wikipedia legge Fig. 3 sulla scorta di uno schema narrativo astratto – il nudo mythos, ma è mai esistito? – e si fa sfuggire il tratto più intrigante di questa versione pittorica dove Elettra è sola, con un manto blu debitore all’iconografia mariana e lo sguardo che, privo della distrazione offerta dal fraterno cimiero, sembra perdersi in una visione foriera di santità: pare che Tischbein il Vecchio abbia perfettamente inteso il dramma del personaggio sofocleo, cui la menzogna sulla morte del fratello fa balenare per un attimo la prospettiva della santificazione grazie al matricidio, poi frustrata dal tardivo palesarsi di Oreste.
Fig. 3. J.H. Tischbein, Elettra dolente (1784), Deutsches Hist. Museum, Berlin. Fig. 4. J.H.W. Tischbein, Elettra riconosce il fratello alla tomba di Agamennone (ma: Elettra con l’urna cineraria del fratello, prima di riconoscerlo), Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe.
Il destino che affligge l’iconografia relativa ai due figli e vendicatori di Agamennone è singolare. Oggi conosce nuova fortuna l’elaborazione da un disegno di John Flaxman (1755-1826: Fig. 6) accessibile nelle collezioni digitali della New York Public Library. I sobri disegni di Flaxman per The Tragedies of Aeschylus (1795) illustrano dichiaratamente le Coefore, e così questo, che probabilmente rappresenta anch’esso l’incontro dei fratelli alla tomba del padre, si considerino il pilastrino e la sommaria oinochoe mollemente appoggiata sull’anca sinistra di Elettra. Tuttavia diviene un vero rompicapo se invece si pretende che rappresenti i coprotagonisti dell’Elettra euripidea. Basti considerare la postura, gli abiti (notevoli la ricchissima gonna e la stupefacente maglietta a ramages) e l’elaborata acconciatura della protagonista, oltre che Oreste in una sorta di costume da bagno vittoriano e con un atteggiamento più adatto a una scena fliacica. Che questa vignetta non abbia alcun rapporto con Euripide è evidente, basti ricordare gli stracci della protagonista dal capo rasato «come quello di uno Scita». Del resto le raffigurazioni neoclassiche riservano anche altre singolarità, come le intriganti ma incongrue trasparenze della tunica di Elettra che guida le castigate portatrici di offerte nelle Coefore (ancora Flaxman; Fig. 5). Si direbbe che il Neoclassicismo abbia realizzato la vocazione a falsificare il mondo classico non soltanto “sbiancandone” la scultura – il verdetto espresso da Nietzsche nella conferenza Il dramma musicale greco è di poco successivo al dipinto Fidia illustra i rilievi (policromi!) del Partenone di Lawrence Alma-Tadema (1868, a Birningham) – ma anche in piccoli particolari rivelatori di intenzioni di volta in volta censorie o piccanti.
Fig. 5. J. Flaxman, Elettra e le portatrici di offerte. Fig. 6. Da J. F., Elettra e Oreste,The M. and I.D. Wallach Division, New York P. L.
Dovremmo concludere che le rese iconiche moderne della saga di Oreste sono attente solo all’astratta genericità del mythos e mixate con assoluta indifferenza per le tre ben distinte drammaturgie del V secolo a. C. che ce la consegnano.
Torniamo a De Chirico (Figg. 8 e 10), un caso molto diverso. Nel sua tempera il pugnale insanguinato, gettato a terra davanti ai piedi dei due fratelli, testimonia che hanno appena condiviso l’azione cruenta – come non avviene nell’Elettra di Sofocle e non era avvenuto nelle Coefore di Eschilo. Riepiloghiamo l’iconografia con le parole di De Chirico: «due figure, un uomo e una donna, l’uomo nudo con una mano sulla faccia in atto di disperazione e la donna di profilo che tiene una mano sulla spalla dell’uomo ha la testa voltata a destra e stringe il pugno destro in segno d’ira; dietro un cielo con nubi bianche». Tornerò su alcuni particolari; per ora osserviamo che De Chirico sta certamente parlando della versione definitiva ma omette un particolare dello sfondo: a incorniciare un cielo azzurro con nuvolette, nella tradizione pittorica toscana, incombe un elemento architettonico, un arco che sovrasta una soglia lastricata, quella dove poggia ormai il pugnale e sulla quale campeggiano monumentalmente le due figure. A dispetto delle misure contenute del dipinto (cm 62×47), l’arco possiede un’imponenza che accentua la sua estraneità rispetto all’ambientazione bucolica scelta dall’antico tragediografo – perché quest’Elettra è la sola versione del matricidio che non si svolga davanti alla reggia degli Atridi. Forse dobbiamo sospettare che la contraddizione tra la fedeltà al plot euripideo e l’enfasi sull’elemento architettonico intruso denunci un’intenzione del pictor e ci solleciti a una lettura cifrata della tragedia. Attraverso questa soglia i due fratelli matricidi, lui diciottenne, l’età dell’efebia e dell’iniziazione all’età adulta, e lei di poco più anziana escono dalla narrazione della quale sono stati protagonisti e, per chi abbia seguito quest’Elettra, dall’intera loro storia. Dove siano diretti è apparentemente ininfluente; lui, racconta la saga, andrà in cerca di una purificazione e di un tribunale che lo liberi dalla condanna giuridica, e lei, come accenna Euripide in chiusura, sposerà Pilade, personaggio silenzioso, come si addice al superego di Oreste. Comunque nessuno dei due tornerà a varcare questa soglia. Come un rito iniziatico, segna il confine fra due età: alle loro spalle l’infanzia, l’adolescenza con le attese connaturate alla posizione sociale e poi naufragate con l’assassinio del padre, l’esilio, l’umiliazione e, soprattutto, la vendetta, vagheggiata per un tempo che quasi raddoppia la Guerra di Troia e infine realizzata; ma cosa davanti a loro? Il pugnale, di traverso al loro percorso, sembra opporsi come ostacolo; è il memento della colpa, anche per non vederlo Oreste deve coprirsi gli occhi ed Elettra distogliere lo sguardo. Il gesto di stizza della protagonista è rivolto all’indietro, ma non agli uccisi, prima Egisto e poi Clitennestra, destinatari del suo odio, e piuttosto all’Eden tossico che ora porta al suo allontanamento. Entrambi si lasciano alle spalle anni di nostalgia: per lei nostalgia del padre, intensa quanto il desiderio di vendetta, e nostalgia del fratello; per lui nostalgia della sorella, più forte del desidero di vendetta: egli non nomina mai il padre e ha rabbrividito nel vedere in lontananza la madre. Per Oreste è anche il commiato dagli anni di un’infanzia lontana, da ricordi repressi negli otto anni dell’esilio. Euripide è il solo dei tre tragici a farci dono di un piccolo quadro tratteggiato molto rapidamente, con Oreste che da bambino insegue, nella reggia, un cerbiatto e cadendo si ferisce: questa l’origine della cicatrice che lo costringerà a palesarsi alla sorella, in una parodia raffinata e insieme tenera di Odisseo adolescente che per esibire la sua valentìa si fece ferire da un cinghiale.
La posizione – lei alla destra di lui – è dettata da Euripide, quando fa che Elettra si autoaccusi: «E io, io ti incoraggiai e la spada la reggevo insieme a te». Con la sinistra appoggiata sulle sue spalle Elettra cerca di rincuorare il fratello, ma era stata la destra a raggiungere l’impugnatura dell’arma. Nella versione preliminare (Fig. 8) De Chirico aveva posto la sorella alla sinistra del fratello, con la mano destra sulla spalla sinistra di lui e la mano sinistra priva di contatto con Oreste – perciò nessuna affinità con il gruppo di Menelaos (Fig. 1), come pure è stato proposto; qui mancano il pugnale e l’arco e si direbbe che, per la fisionomia di Oreste oltre che per la postura dei due, che il modello sia il gruppo statuario del Museo Archeologico di Napoli (Fig. 7). Questo doveva raffigurare i fratelli prima del matricidio, tuttavia nella rielaborazione di De Chirico la sinistra di Oreste prova che il delitto è già stato compiuto.
Fig. 7. Scuola di Pasiteles (I a. C. – I d. C.), Elettra e Oreste, Museo Archeologico Napoli, inv. 2438. Fig. 8, G. De Chirico, Oreste ed Elettra, prima versione (1923).
Nella versione finale lo spazio che i fratelli si lasciano alle spalle incarna un tempo edenico, e l’arco si direbbe una ripresa di quello della cacciata di Adamo ed Eva dipinta da Masaccio per la Cappella Brancacci (Fig. 9). Ovviamente non è necessario documentare quando De Chirico vide Masaccio, comunque i due dipinti risalgono ai suoi anni fiorentini. Gli atteggiamenti dei protagonisti confermano l’analogia: il viso levato in alto, lei, come Eva, e lui con la sinistra a coprirsi gli occhi, anche questa un’eco del pittore toscano, come è già stato notato nella scheda curata dal FAI per il Catalogo generale dei Beni Culturali. Il punto di vista di Masaccio, laterale e non frontale, avvia i due progenitori, che ormai hanno superato la soglia, lungo un percorso sul quale sono già incamminati. La figura dell’angelo introduce un elemento narrativo e il suo gesto intima una direzione; ma questa e quello non sembrano stare a cuore a De Chirico: nella lettura del pictor il cammino di dolore che i due fratelli stanno per intraprendere – sempre che riescano a superare quel pugnale – non appartiene a un disegno provvidenziale, non comporta redenzione ma solo un irrimediabile distacco dai luoghi, dai tempi e fra loro.
Fig. 9. Masaccio, Cacciata di Adamo ed Eva, S. Maria del Carmine, Firenze (1424-1425).
Fig. 10. G. De Chirico, Oreste ed Elettra, versione finale (1923).
Riferimenti.
Elettra nelle raffigurazioni antiche: I. McPhee, «Elektra I» in Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, III.1,Zürich-München1986, pp. 709-19.
Le immagini antiche e moderne dei miti antichi: P. Boitani, Il grande racconto dei classici, Bologna 2024.
Mito e teatro, il caso Antigone: E. Cantarella, Contro Antigone, Torino 2024.
Sylvia Plath e l’Elettra di Sofocle: J.M. Bremer, Three Approaches to Sylvia Plath’s ‘Electra on Azalea Path’, «Neophilologus» 76, 1992, pp. 305-16.
Il riconoscimento: P. Boitani, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Torino 2014, in part. cap. III.
Il dramma musicale greco (1870) di Nietzsche è compreso in F. N., La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1991-.
Oreste ed Elettra di De Chirico nel Catalogo generale dei Beni Culturali: https://catalogo.beniculturali.it/detail/Lombardia/HistoricOrArtisticProperty/2p100-01090_R03
De Chirico descrive la versione finale del suo Oreste ed Elettra: lettera a F. Di Cocco (14 febbraio 1929), in G. De Chirico, Lettere 1909-1929, a cura di E. Pontiggia, Cinisello Balsamo (MI) 2018, pp. 420 e 422.
La prima versione di Oreste ed Elettra: Giorgio De Chirico: 1924, Catalogo della Mostra alla Fondazione Accorsi – Ometto di Torino, a cura di Victoria Noel-Johnson, Cinisello Balsamo (MI) 2024, num. 19.