Yourcenar, Ritsos e altri moderni per Elettra l’esclusa


― 3 Novembre 2025

Maria Serena Mirto, Alias Domenica – Il Manifesto

Un’antica interpretatio nominis riconosceva in Elettra (a-lektros) «colei che è esclusa dal letto coniugale». Euripide ne offre una piena incarnazione nella vicenda che la vede protagonista: sposa intatta, relegata ai margini del territorio di Argo accanto a un umile contadino, Elettra consuma nell’attesa il tempo immobile del ritorno di Oreste, «colui che vive sui monti». È il fratello perduto, l’esule destinato a riapparire perché la giustizia assuma la forma più lacerante: il matricidio.

In quell’atto estremo si compie il contrappasso di Clitemnestra – nel cui nome, da kluté e médo/médomai, risuona «colei che ordisce inganni famosi» – , la regina adultera che, con l’aiuto di Egisto, aveva conquistato il potere celandosi dietro la maschera della fedeltà coniugale. Ma la vendetta non restituisce né la casa né la corona: lascia soltanto l’eco cupa di un rimorso che non si estingue.

Il dolos dei vendicatori si offusca, e nell’epilogo – in un dialogo melodrammatico sospeso fra lucidità e delirio – i due rivivono il delitto come in trance. Argo resta lontana, per sempre preclusa ai figli di Agamennone. E quando l’azione si spegne, Elettra depone la propria identità tormentata e contraddittoria per tornare simbolo: riflesso del suo nome, con le risonanze che il pubblico degli spettatori vi può avvertire. Figura elusiva e mutevole, trova dimora non nel dramma, ma nel racconto che lo sottende, là dove mito e destino si ricongiungono in un’unica voce.

Dare rilievo alla sensibilità di Euripide per il potere evocativo dei nomi è solo uno dei pregi della nuova edizione curata per la Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori (Elettra, pp. CLX-479, euro 60,00) da Guido Avezzù, che si propone di restituire alla tragedia euripidea la sua voce più autentica e autonoma, riscattandola dall’ombra del confronto perpetuo con i due capolavori – Coefore ed Elettra – consacrati al medesimo segmento mitico da Eschilo e Sofocle.

Il merito dell’impresa risiede in una comparazione sottile e misurata, che non mira a stabilire gerarchie né a evidenziare fragilità, ma a illuminare la singolare arte drammatica di Euripide, valorizzata dal commento per «il modo in cui essa è ricevuta dal pubblico, ne suscita le attese e, forse con sapiente disegno, le disattende e le orienta in altre direzioni» (p. CLVII). L’egregio risultato si impone come modello durevole per la comunità internazionale dei grecisti.

La nota al testo, esauriente e limpida anche nei dettagli più tecnici, costituisce la più completa illustrazione della storia della sua tradizione – diretta e indiretta – , del rapporto tra i manoscritti e del relativo dibattito critico. Avezzù riconosce che, al di là di un discutibile conformismo nel ricostruire la stratificazione delle correzioni di Demetrio Triclinio sul codice principale (L, conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze) – stratificazione suggerita dal diverso colore degli inchiostri – sarà necessario mantenere aperti altri scenari, qualora ulteriori verifiche non confermino il modello stemmatico più diffuso nella prassi editoriale di questa tragedia. Gli studiosi sapranno apprezzare l’equilibrio complessivo delle scelte, e le indicazioni che agevolano – anzi incoraggiano – riscontri autoptici sui siti digitali delle biblioteche che custodiscono i vari codici.

All’apparato critico se ne aggiunge uno con i testimoni indiretti relativi a singoli passi, e un altro dove sono trascritte le diverse annotazioni presenti nel codice L. Dai marginalia di carattere esegetico e critico-testuale dei codici cinquecenteschi riemergono inoltre preziose congetture: una in particolare – riconducibile a Jean Dorat o al suo ambiente – , ingegnosa ed economica ma a lungo dimenticata nella complessa storia editoriale dell’opera, offre un’elegante soluzione ai problemi posti dal primo verso della tragedia.

Si potrà dissentire da alcune decisioni, come quella di seguire chi postula una lacuna dopo il v. 1045, per colmare a ogni costo un’imperfezione argomentativa (ma il senso del passo è già perspicuo, come notano Martin Cropp, nella seconda edizione del suo commento, 2013, e Bernd Seidensticker, nel commento pubblicato da De Gruyter nel 2025, troppo tardi perché Avezzù potesse tenerne conto). In ogni caso, anche quando non condivida le singole scelte ecdotiche, il lettore dispone degli elementi necessari per formarsi un giudizio autonomo: insieme all’articolata introduzione, il commento abbraccia ogni aspetto utile a definire e interpretare la tragedia e il suo autore, dalla lingua al metro, dalla costruzione dei personaggi alle forme della drammaturgia.

La traduzione si propone «di facilitare l’approccio al testo» (p. CLVII) seguendone la scansione in versi senza intento metrico: fluida ed elegante, rivela una profonda familiarità con l’usus scribendi euripideo, e intreccia sensibilità filologica, linguistica e tematica così restituendo – in modo volutamente evocativo, poiché la fedeltà assoluta non appartiene all’atto del tradurre – il gusto, il ritmo e la ricchezza cromatica che animano la tavolozza di Euripide.

Basterà ricordare qualche esempio tratto dal prologo, affidato all’anonimo contadino che ha sposato Elettra ma non osa violarne la verginità: «Di qui un tempo, armato Ares, con mille navi / salpò per la Troade Agamennone signore» (vv. 2-3). La traduzione del v. 2 riproduce l’assonanza aras… Are mediante l’allitterazione «armato Ares», che conserva il tono enfatico del greco (la Kunstsprache tragica è attribuita uniformemente a personaggi di ogni ceto sociale). La metonimia che identifica il dio della guerra con la spedizione armata evita inoltre di oscurare un motivo che riecheggia l’Agamennone eschileo, da cui Euripide riprende, come osserva puntualmente il commento, diversi tratti stilistici.

Ma la dizione elevata del racconto affonda nella cadenza del parlato e il tono colloquiale emerge dall’incisiva traduzione del v. 39. L’umile personaggio spiega perché Egisto abbia deciso di dargli in moglie Elettra – se mai nascessero dei figli, non avrebbero il rango per vendicare Agamennone, e un gentiluomo impoverito non rappresenta una minaccia per gli assassini del sovrano – non senza una riflessione sentenziosa: hos astheneî doùs asthenê láboi phóbon (lett. «Così, dandola a un uomo debole, ne avrebbe tratto in cambio una paura debole»). Avezzù traduce: «Così la dà a uno da niente, e niente più paura». Il parallelismo lessicale dell’aggettivo «debole, insignificante» è reso mediante la ripetizione del sostantivo «niente», dapprima nella locuzione dispregiativa, poi nella frase nominale che esprime l’assenza di timore: la vivace espressione quotidiana sostituisce quella ricercata, assai meno nitida, senza tuttavia rinunciare né al contrasto ironico né alla simmetria formale del verso.

L’eccellenza di questo volume si rivela anche nell’architettura complessiva. I testi moderni ispirati al plot dell’Elettra euripidea – soluzione brillante quanto inconsueta – non vengono presentati in modo didascalico né isolati in una sezione autonoma; al contrario, le allusioni alla ricezione moderna si intrecciano organicamente al discorso critico, mostrando come ogni riscrittura, narrativa o drammatica, costituisca di per sé un’interpretazione dell’ipotesto.

Esemplare, in tal senso, il parallelo tracciato a p. 163 tra la fisionomia che Gilbert Murray, in un contesto critico-letterario, attribuisce al Contadino e il corrispondente personaggio di Théodore delineato da Marguerite Yourcenar in Électre ou la chute des masques (1954), in sorprendente consonanza con quella medesima linea interpretativa. Per illustrare il disagio di Oreste al suo ingresso in scena, giova poi richiamare il ritratto che ne offre Ghiannis Ritsos nel monologo lirico a lui dedicato, dove il protagonista si dichiara «impreparato di fronte alla soglia dell’azione»: «mi manca l’indispensabile / rapporto con il paesaggio, col tempo, con le cose, / e con gli eventi» (1962-1966; p. XXVI, 176).

Questa scelta metodologica risponde, del resto, all’intrinseca natura del canovaccio mitico, che offre agli autori un materiale costantemente aperto alla variazione: «Il mito tragico è, a suo modo, un palinsesto, suscettibile di continue e molteplici riscritture» (p. XXVIII), osserva Avezzù, in accordo con l’intuizione che fa riconoscere a Yourcenar, nella prefazione a Électre, «il credito inesauribile che ci offre il dramma greco, questa sorta di straordinario assegno in bianco sul quale ogni poeta, a turno, può permettersi di scrivere la cifra che preferisce».


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