Massimiano ovvero della coscienza del declino

Emanuele Riccardo D'Amanti
― 25 Giugno 2020

Nell’elegia latina di età classica l’amore era stato rappresentato come un’esperienza riservata ai giovani, mentre il senilis amor, a cui talora si accennava con disprezzo in quanto motivo di vergogna, a causa della natura soggettivistica del genere elegiaco non aveva trovato lo spazio e l’importanza che l’antico topos dell’inconciliabilità di amore e vecchiaia avrebbe potuto garantirgli.

Tra la fine del V e la metà del VI sec. d.C. a osservare per la prima volta l’amore dal punto di vista di un vecchio sfiduciato e depresso è Massimiano, che in sei elegie descrive il dramma personale della negazione dell’amore e rievoca con nostalgia e rimpianto le gioie non godute, da giovane per un eccessivo senso del pudore, nella vecchiaia a causa dell’impotenza.

Già in apertura della prima elegia il senex enuncia solennemente l’unicità e l’eccezionalità della propria drammatica condizione e mostra un’inesausta tensione verso la morte (1, 1-8):

Vecchiaia ostile, perché indugi ad affrettare la morte?
Perché persino in questo mio corpo stremato procedi lentamente?
Libera, ti prego, la mia vita infelice da una simile prigione:
ormai per me la morte è riposo, vivere sofferenza.
Non sono chi fui: perì di noi la più gran parte;
anche ciò che sopravvive è preda di tremito e languore:
la luce del giorno, assai gradita nella gioia, ora intollerabile nel dolore
e, cosa peggiore di ogni morte, il voler morire.

Il senex è un appestato, un malato terminale relegato in un ambiente oscuro simile all’oltretomba, un morto vivente prigioniero nel sepolcro del proprio corpo. In una simile dimensione tragica la morte è preferibile a una vita di dolori (1, 263-266):

Chi dunque desidererebbe protrarre a lungo queste sofferenze
e morire per il progressivo illanguidirsi della vita?
Meglio morire di una morte vera che condurre una vita di morte
e seppellire i sensi nelle proprie membra.

A un quadro clinico già tanto precario si aggiungono il dileggio da parte dei giovani, il deserto affettivo, la privazione di piaceri e comodità: proprio come un appestato, il senex è isolato ed emarginato.

Il principale modello per la poesia del dolore provocato dall’esilio è Ovidio, nel quale Massimiano trova lo sconforto per la metamorfosi psicofisica, il confronto ossessivo tra la felicità passata e la miseria presente,la forte componente soggettiva e introspettiva che mira a rendere la drammatica condizione esistenziale del poeta simbolo della rovina umana. In un’epoca in cui la ricezione del Sulmonese si realizza per lo più nella riproposizione di uno stile e di un contenuto ovidiano, l’Ovidio relegato a Tomi è per Massimiano una risorsa psicologica prima ancora che stilistica: anche il senex merita quindi a buon diritto di entrare nella Exilliteratur europea.

Nella seconda elegia, che costituisce una propagazione narrativa della prima, il poeta vecchio e impotente è respinto in modo sprezzante da Licoride, la quale, attratta ormai da più giovani amanti, dopo una lunga relazione more uxorio infrange il foedus amoris, fondato evidentemente su un rapporto di natura erotica. Massimiano esorta la donna ad avere fiducia nel noto e a evitare il nuovo, spera che in lei la riflessione sopravanzi lo scatto irrazionale e che, benché ormai sia venuta a mancare la fides, componente essenziale di un rapporto, l’amata traduca la passione sopita in un tenero legame affettivo, che valga da conforto in un’età degna di pianto (2, 69-72):

Se disdegni chiamarmi fratello oppure amico,
chiamami padre: questo nome racchiude entrambi i sentimenti.
Il rispetto vinca la lussuria, l’affetto prenda il posto dell’amore:
la ragione vale sovente più della forza cieca.

In una produzione profondamente debitrice verso quella ovidiana dell’esilio Licoride rappresenta l’opposto di Fabia, la moglie esemplare a cui Ovidio aveva accostato le figure delle virtuose Laodamia, Evadne, Alcesti, Andromaca e Penelope: se Fabia è un conforto per il marito in esilio, Licoride è l’ennesimo malum senectutis di Massimiano.

La figura del senex scoraggiato e dolente, dell’uomo infelice, solo ed escluso, oltre a dipendere dall’insistita autorappresentazione di Ovidio, dai ritratti dei senes comici e dalla decima satira di Giovenale, risente fortemente anche di celebri figure della tragedia, in particolare di quella di Edipo a Colono. Inoltre l’accorata dimensione psicologica della senectus si sostanzia di motivi lirici greci (da Mimnermo e Anacreonte fino alla produzione epigrammatica ellenistica) e soprattutto oraziani: nella critica e nel disprezzo del presente formulati dal senex massimianeo rivivono le parole del laudator temporis acti dell’Ars poetica, mentre i Carmina e l’Epistola a Floro investono i passi costruiti sull’antitesi tra la giovinezza felice e la misera vecchiaia.

Le Elegiae massimianee sono il raffinato prodotto di una cultura satura di esperienze letterarie e fedele all’egemonia dei modelli anche quando la loro ripresa è operata nel segno dell’innovazione. Recuperando un passato letterario di cui ha il lucido governo, il poeta opera la mistione di diversi generi letterari, poetici e narrativi, in ossequio al principio della poikilía, di influssi e di stile, tipico del genere elegiaco.

Il senso della continuità di Massimiano con la grande tradizione elegiaca di età augustea è evidente, oltre che nel soggettivismo, di cui è quasi del tutto priva la tarda antichità, nella perfetta conoscenza del codice amatorio e dei valori che caratterizzano il mondo galante, nella fedeltà alla memoria poetica e al linguaggio del genere, nelle continue allusioni, nella ricerca di una precisa architettura narrativa.

Eppure, pur essendo consapevole del proprio epigonismo, Massimiano apporta innovazioni al genere, muta di segno alcuni temi, riscrive il codice elegiaco, rendendo per alcuni aspetti la sua opera un’antielegia. Un inedito spazio è ad esempio riservato al vecchio innamorato e al tema della sessualità maschile nella vecchiaia, nuovo nel terreno elegiaco è il rifiuto di una vita non improntata alla paupertas, al punto che quando l’etichetta senile gli preclude di godere dei propri beni, il poeta si rappresenta come Tantalo e come il drago delle Esperidi, custode dei pomi d’oro di Atlante (1, 181-190):

Che me ne faccio della ricchezza, di cui, se mi si toglie il godimento,
per quanto facoltoso, sempre sarò completamente privo?
Anzi è una pena custodire il patrimonio accumulato:
benché lo si possieda, intaccarlo sarebbe un sacrilegio.
Non altrimenti Tantalo assetato cerca di lambire l’acqua
e si astiene a forza dai cibi postigli innanzi.
Piuttosto io stesso divengo custode delle mie sostanze,
conservando per altri ciò che per me è perito;
così come nei giardini dalle fronde dorate l’enorme serpente
sorveglia insonne pendenti frutti non suoi.

Antielegiaco è l’impegno civile e politico: in gioventù Massimiano è attivo nel foro e coltiva poesia; in età avanzata partecipa a un’ambasceria di pace a Costantinopoli, ma poi si trova ai margini della società.

Tra gli elementi di novità delle Elegiae rispetto alla tradizione classica colpisce la scelta di non dedicare un intero ciclo di poesie a una sola donna: al centro dei quattro episodi amorosi sono poste distinte figure femminili, Licoride, Aquilina, Candida e la Graia puella, ma nessuna di esse, pur costituendo il motore di ciascuna vicenda, è posta su un livello superumano di dignità. L’unica a ricevere la medesima attenzione che fin da Cornelio Gallo era stata riservata a Licoride, Lesbia, Delia, Nemesi, Cinzia e Corinna è la Senectus, alla quale Massimiano soggiace come un amans alla propria domina (1, 55-58):

Solo tu mi soggioghi a te, miserevole vecchiaia,
dinanzi a cui cede ciò che può vincere ogni cosa:
verso di te precipitiamo, tutto ciò che è in tuo possesso viene meno,
e per ultima col tuo male distruggi anche te stessa.

Ma nell’universo massimianeo vi è una seconda forza principale a cui tutto cede, l’eros, concepito come principio dell’ordine cosmico. Quando, nella quinta elegia, Massimiano va incontro a un insuccesso erotico, la Graia puella, dalle cui grazie il vecchio si era fatto avvincere, intona una laudatio funebris sulla mentula, di cui piange la rovina come una catastrofe non personale, ma universale (non fleo priuatum, sed generale chaos, 5, 116), esaltandone l’importanza per la creazione di ogni forma vivente, per l’equilibrio, la concordia e la coesione che garantisce alla coppia, per la valorizzazione di entrambi i sessi (5, 119-124):

Senza questa non c’è concordia tra i due sessi,
senza questa viene meno il fascino maggiore della coppia.
Essa stringe due anime con un patto così saldo
da far sì che due esseri siano un corpo solo.
Una donna pur bella, se questa è venuta a mancare, perde di valore
e, se verrà a mancare, anche l’uomo sarà degno di disprezzo.

Nella sua onnipotenza la mentula ha risvolti paradossali: reca piacere a chi vi si sottomette, rigenera e feconda la donna da lei ferita, rende lieta la vergine deflorata (5, 131-140):

Tutto si piega a te e, cosa più sublime, spontaneamente
si piegano ai tuoi comandi i più grandi scettri,
né si dolgono di essere domati, ma sottomessi da te provano gioia:
i colpi del tuo furore sono assai propizi.
Persino la saggezza, che pur modera l’universo intero,
protende le mani invitte ai tuoi comandi.
È abbattuta la vergine ferita dal tuo colpo rituale
e giace lieta cosparsa di un sangue sconosciuto;
pur lacerata, sopporta in silenzio il suo dolore, anzi ne ride
e benevola plaude al suo sicario.

Nonostante i numerosi elementi antielegiaci, il canto di dolore del senex non risulta depotenziato: al contrario grazie alla sintesi di due temi, l’amore infelice e l’esilio quale negazione della vita, con il suo ultimo rappresentante l’elegia riacquista pienamente quel legame con la nenia che i grammatici antichi le riconoscevano e che Ovidio a Tomi aveva recuperato.

Grazie alla descrizione dell’esistenza distrutta e sconvolta dalla vecchiaia la poesia massimianea acquista il pathos di una tragedia esistenziale più estesa; il senso della caducità della vita umana e i toni atteggiati alla mestizia le conferiscono un attestato di veridicità e concorrono a suscitare la commiserazione del lettore verso la sorte dell’infelice. L’immane stanchezza del presente che risuona nelle parole del senex ne sublima il dolore e lo rende un nuovo, e forse l’ultimo, personaggio tragico della letteratura classica.


Emanuele Riccardo D’Amanti è professore associato di letteratura latina all’Università degli studi Niccolò Cusano, ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Roma La Sapienza, per poi partecipare come assegnista al progetto sulla «Classificazione tematica dei rapporti fra la poesia elegiaca di Ovidio e le Elegie di Massimiano». Si è occupato di poesia lirica greca simposiale, di Cicerone, Orazio, Svetonio e Venanzio Fortunato. Per la Fondazione Valla ha curato l’edizione delle Elegie di Massimiano ed è curatore di un’edizione delle Elegie di Tibullo uscita per Rusconi.


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