Le Nemee di Pindaro

Maria Cannatà Fera
― 3 Giugno 2020

In una vallata boscosa del Peloponneso nord-orientale tra Argo e Corinto, presso il tempio di Zeus si svolsero dal sesto secolo a.C., ad anni alterni, gli agoni nemei.

Le antiche gare sono state rifondate e si tengono nello stesso luogo a partire dal 1996 con cadenza quadriennale, ma a causa della pandemia la settima edizione, prevista per fine giugno 2020, è stata rinviata al 2021. Come Olimpiche, Pitiche e Istmiche, erano giochi panellenici, sacri; il premio non consisteva in oggetti più o meno preziosi, ma in una corona di apio dal valore solo simbolico. Gli scavi condotti nell’ultimo cinquantennio, guidati dall’americano Stephen Miller, hanno messo in luce la ricca vita religiosa e culturale gravitante intorno al tempio, che ha pure riacquistato una dimensione già visivamente più definita: anche un visitatore poco attento si accorge che accanto alle tre colonne che per secoli hanno caratterizzato il paesaggio altre sei sono state aggiunte, ricollocate dagli archeologi nella posizione originaria.


Come in altre competizioni sportive della Grecia antica, anche in quelle di Nemea era frequente l’intervento dei poeti, ritenuto mezzo di comunicazione indispensabile per la fama dei vincitori, il prestigio delle casate e delle città di provenienza: l’intera comunità era esaltata infatti per i successi dei singoli. E la celebrazione, pubblica, costituiva l’occasione per riaffermare i valori della tradizione.

A vincitori di queste gare atletiche o ippiche sono rivolti otto epinici (ma la raccolta delle Nemee comprende anche due odi per vittorie ottenute in gare minori, a Sicione e ad Argo, e inoltre un componimento per una occasione piuttosto singolare, l’insediamento in una carica politica a Tenedo, isoletta antistante la Troade). I committenti delle Nemee non sono personaggi di primo piano, il più illustre è Cromio di Siracusa: familiare del tiranno Ierone che per qualche anno lo mise a capo della nuova città di Etna, egli aveva al suo attivo esperienze belliche e diplomatiche. Gli altri, provenienti dalla vicina isola di Egina, da Argo, dal demo ateniese di Acarne, dovevano la fama soltanto alle vittorie agonali conseguite, o a quelle del clan familiare.

Ma la celebrazione pindarica ha dato loro uno statuto superiore, li ha quasi inseriti nella sfera del mito, facendoli diventare paradigmi di valore e rendendo eterna quella luce che s’irradiava dal luogo di vittoria: gli atleti sono accomunati agli eroi e ai semidei. Di questi il poeta canta nelle Nemee vicende prodigiose.

Canta di Eracle, che appena nato strangola i serpenti mandati contro di lui da Era; la narrazione, rapidissima, procede con andamento selettivo, “drammatico”: accorrono in aiuto del piccolo il semicoro femminile, con la madre Alcmena, e il semicoro maschile, guidato da Anfitrione. Ma li coglie «stupore grave e gioia» davanti all’esito imprevisto.

Delle nozze di Peleo e Teti, celebrate alla presenza degli dei; è Apollo a guidare il coro delle Muse, intonando un canto che si intreccia indissolubilmente a quello del poeta.

Di Polluce, che quando il gemello Castore, figlio della stessa madre Leda, sta morendo, è posto da Zeus suo padre davanti alla scelta se abbandonare il fratello alla sorte mortale che gli è destinata, o condividerla con lui; e il giovane non ha esitazioni nel rinunciare a una vita pienamente divina.

L’eccezionalità di Achille è mostrata attraverso lo sguardo di Artemide e Atena, stupite nel vederlo ancora bambino superare alla corsa i cervi, uccidere cinghiali e leoni; dal punto di vista degli Etiopi il poeta si pone invece quando anticipa che l’eroe, giungendo a Troia, si sarebbe prefisso nell’animo «di non far tornare indietro in patria il loro capo Memnone».

Achille era nato da Peleo, figlio di Eaco generato da Egina a Zeus, e a questa stirpe risalgono i miti cantati nelle odi eginete: Telamone, di Peleo fratello, il figlio Aiace, Neottolemo nato da Achille. E il mito si intreccia con la storia: a Eaco, «eccellente di mano e consiglio», si rivolgevano i vicini eroi, «quanti armonizzavano il popolo in Atene rocciosa, e i discendenti di Pelope a Sparta».

Sono quadri mirabili che si alternano a passi di riflessione alta. Le considerazioni gnomiche temperano la gioia della vittoria ricordando i limiti degli esseri umani: come la terra, le generazioni non sempre danno buoni frutti; inevitabile è per gli uomini il destino di morte, a differenza degli dèi cui pure in qualcosa somigliano. Pindaro si sofferma anche sul mestiere di poeta: sul canto che raggiunge agilmente terre lontane, a differenza della statua immobile su un piedistallo; sulla poesia unico mezzo che può riflettere, come uno specchio, le belle imprese; sull’ode, definita «bevanda canora» della quale la vittoria «ha sete», e corona d’oro, saldato dalla Musa con «candido avorio e fiore di giglio sottratto a rugiada marina». Il poeta è al tempo stesso custode della memoria storico-mitica, profeta/figlio delle Muse e consapevole detentore di un mestiere raffinato.

I cataloghi di vittorie, ai quali non potevano certo rinunciare i committenti, presentano spesso immagini in grado di vivificare sezioni meno sublimi. Così in un epinicio che pone in primo piano i numerosi successi della famiglia di Alcimida, vincitore fanciullo: con la vittoria a Olimpia, Prassidamante portò per primo ghirlande agli eroi egineti dal fiume Alfeo; Callia vinse a Pito, compiacendo i figli di Latona, «con le mani avvolte nel cesto», e presso la fonte Castalia «rifulse nel vespero con le voci delle Cariti»; il «ponte del mare instancabile» onorò Creontida nel recinto di Posidone e lo incoronarono i «pascoli del leone»; è personificata anche l’arte del pugilato, che mostra le vittorie della famiglia, «dispensiera di corone» in tutta la Grecia, tanto numerose come nessun’altra poteva vantare.

A distanza di venticinque secoli la voce di Pindaro, che pur tra le oscillazioni del gusto naturali in un così lungo arco di tempo non ha mai cessato di catturare il pubblico, continua a risuonare tra noi; la sua poesia incanta e stupisce ancora generazioni di intellettuali che hanno conosciuto la crisi della tradizione esplosa nel Novecento.


Maria Cannatà Fera insegna letteratura greca all’Università di Messina. I suoi interessi riguardano la letteratura greca, in particolare Pindaro. Si è occupata anche di mito, poesia drammatica (in particolare di problemi relativi al testo di Eschilo e di Euripide e del rapporto tra Menandro e Euripide) e di cultura della Sicilia greca. Per la Fondazione Valla ha curato l’edizione delle Nemee di Pindaro (2020).


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